La casa dei sogni
La casa dei sogni
Tra le cose del passato è la casa ad essere evocata più facilmente. Ma quale casa? La casa dei ricordi?
Non è questione di memoria. Riesce difficile enumerare tutte le case dove si è passati. Alcune rimangono visibili, possiamo ripercorrerle e fissarci in un angolo, altre, più lontane, conservano una forma vaga; la maggior parte si sono perdute. In ogni caso, nella nostra visione intima non c’è contrasto di luce e buio, tutto è in penombra, tutto il visivo e il sonoro familiari appartengono a ricordi e visioni velati, tenui, in chiaroscuro.
Se ricordiamo la casa natale, teniamo conto che nel ricordare è sempre re-immaginata. Tutti i luoghi del passato evocati appartengono alla casa dei ricordi – più che alla casa del passato, alla casa natale. Perché quando si ritorna nella casa dei ricordi, il mondo reale, presente e passato, svanisce immediatamente, tutto è re-immaginato.
La casa natale è infatti lontana, perduta, siamo sicuri di non abitarla mai più. “In seguito non ho mai più rivisto quella strana dimora (…) Così come appare nei miei ricordi d’infanzia, non è un edificio, ma è completamente fusa e distribuita in me” Quaderni, Rilke
L’immagine della casa è “fusa” e “distribuita” in noi stessi. Nel ricordare la casa natale, si intraprende un lungo il tragitto per riprodurre le origini, e in questo tragitto incontriamo prima la strada che ci riporta all’infanzia, a quell’infanzia sognante, ricca di immagini, immagini di intimità, immagini del grande riposo attivo, che alimentano la poesia della casa.
Non sottovalutiamo comunque la capacità della casa natale di attrarci con la forza del ritorno. Pensiamo al ritorno a casa del “figliol prodigo”: la forza è tale che non è messa in discussione la possibilità di riconciliazione con il padre. La casa natale è presente in noi al di là dei ricordi e dei ritorni, la casa natale è fisicamente dentro di noi, come un insieme di abitudini organiche, il nostro corpo non la dimentica. Proviamo a percorrerla. Constateremo che i gesti più precisi vivano ancora dentro di noi, sperimenteremo che sappiamo muoverci ad occhi chiusi, senza rischiare di inciampare su quel gradino davanti alla porta della camera da letto.
“Improvvisamente una stanza con la sua luce, mi si presenta di fronte, quasi palpabile in me” Ma vie sans moi, R. M. Rilke
Questo sentire quasi palpabile in noi stessi ci fa andare oltre la casa natale e la casa dei ricordi. Siamo nella e oltre la fusione di ricordi e di fantasie, siamo di fronte alla casa dei sogni: la casa abitata nei sogni è qualcosa di più e di diverso dalla casa dei ricorsi. La casa dei ricordi risponde infatti al bisogno di protezione, del calore umano originario, mentre nella casa dei sogni ci perdiamo. Andiamo in cerca dell’angolo oscuro della casa natale, della stanza più nascosta, riservata alla solitudine, dove trovare rifugio, la protezione più remota ai nostri sogni. Il sogno della casa ha bisogno di una piccola casa sognante all’interno di quella più grande.
Quindi abitare oniricamente la casa natale è più che abitarla attraverso il ricordo. I centri di solitudine, i luoghi dell’intimità protetta, gli angoli dove fantasticare bene si raggruppano per costituire la casa dei sogni, più duratura dei ricordi dispersi nella casa natale.
In questo abitare protetto la casa dei sogni godiamo infine di un prezioso potere benefico: fornire un riparo all’immaginazione, proteggere il sognatore che è in noi – e poter sognare in pace. E’ un potere benefico della casa che viviamo in particolare quando si sogna la casa natale: nella mescolanza della memoria e della immaginazione, si partecipa ad un calore originario, si riposa nel proprio passato. Nella casa natale riposa il nostro sognare. L’immaginazione infatti vuole la sua casa di riposo, e la vuole semplice e tranquilla.
Negli esercizi immaginifici sulla casa scopriremo che le vere immagini di intimità protetta sono frutto della fusione di memoria e immaginazione. L’immaginazione le incide nella nostra memoria. Esse approfondiscono ricordi vissuti, per farli diventare ricordi dell’immaginazione, portano dal passato al presente e al futuro, e viceversa, per cui troviamo, insieme, le immagini della casa natale e della casa sognata, e abbiamo comunque coscienza che la casa sognata è un tema più profondo della casa natale.
Il fattore di coesione di queste immagini della casa dei ricordi, sempre re-immaginata, va trovato, non tanto in un elemento spaziale, quanto nel fattore di protezione, nel valore dell’intimità, dell’interiorità calda, della quiete, della felicità – che gli spazi, certi spazi, evocano. La casa natale e la casa sognata, insieme, sono portatrici dello spazio che protegge l’essere, in quanto la casa, in ogni tempo, spalanca all’interiorità ed è custode di tutte le immagini dell’intimità protetta: è il nostro angolo nel mondo, è il guscio iniziale.
Chiediamoci allora, più che affidarci alle case dei nostri ricordi, a quale luogo siamo attaccati, dove e come mettiamo radici, giorno dopo giorno, in un angolo del mondo, dove riscopriamo il nostro guscio iniziale, l’umile casa della nostra intimità, la nostra casa dei sogni e delle favole eterne.
Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta,
onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Le ricordanze, Giacomo Leopardi
Leggiamo questi brevi versi, bastano per farci immaginare ovunque il dentro delle cose, da cui torna e sorge il dolce rimembrar.
Immaginiamo questi luoghi che proteggono il dolce rimembrar, talmente semplici e radicati in noi che li si ritrova evocandoli. Descriverli significherebbe farli visitare. Occorre invece conservare la loro penombra, ascoltarli più che vederli.
Negli esercizi di immaginazione, occorre non ricordare per descrivere ma sognare, orientare verso il segreto e l’ascolto: è come un ascoltare voci oltre le pareti, senza voler comprendere le parole: “Talvolta un suono attutito di voci ci giungeva da una casa o da un giardino, ma non si distingueva alcuna parola precisa, alcuna frase. Era appena un mormorio; si capiva che in quel luogo qualcuno stava vegliando: e infatti l’insolita di quel settembre che volgeva al termine invitava la gente del quartiere a lasciare le finestre spalancate sulla notte e sul chiaro di luna. Questa gente mostrava, come noi, un’ingenua fiducia: era la pausa, il riposo delle stagioni, quando si sospira il benessere perché l’estate, sospinta dall’autunno, trattiene l’ardore del sole prima di sparire, mentre l’autunno promette ancora giorni di luce, prima delle piogge, la cui freschezza è bene accettata.
Tutto dunque ci esortava a confidare nella benevolenza del mondo. E quanto più ci sembrava buono, tanto più ci sentivamo puri e imprudenti”. Tonino, Henri Bosco
In quella notte, in quella casa, tutto è in pace col mondo e con le stagioni.
Ascoltiamo il silenzio, il silenzio della nostra camera e il silenzio delle camere vicine. Il silenzio risuona nella tromba delle scale, lassù, sul soffitto.
Ascoltiamo la casa abbandonata, dove non vive nessuno: “Nella casa abbandonata, vivevano soltanto due o tre nidi: uno scricchiolo, un pettirosso e qualche passero. Non si vedevano quasi mai. Un fremito vivace d’ali arruffate, piccole grida secche, collere brevi: ecco tutto ciò che s’udiva delle loro sarabande. Nascondevano la loro vita familiare nel senso fogliame d’una pergola, su cui si gonfiavano confusamente la vite vergine e la clematide” Tonino, Henri Bosco.
Tutto è in uno stato di magico ascolto, e così deve porsi il nostro ascoltatore o lettore. Se si sta leggendo un poeta, infatti, soltanto quando sospendiamo per un attimo la lettura, soltanto nel momento in cui gli occhi abbandonano la pagina, l’anima del lettore avverte quel rapimento che ci porta a poter dire che si scrive un luogo, si legge una camera, si legge una casa. Le immagini dei poeti ci devono servire ad aprire nei luoghi una porta dell’immaginazione, per cui il lettore che legge una camera sospende la sua lettura e si mette in attesa che la camera ritorni e allora incomincia a re-immaginare la sua camera, specialmente se è piccola, semplice, con poche e buone cose.
Io non so più dolce cosa
dell’ascosa mia stanzetta,
sempre in vista a me diletta,
nuda come una prigione.
Poche cose vi son, buone
sol per me, per la mia vita.
I rumori della vita
giungon sì, ma di lontano.
Preludio e fughe, Sesta fuga, Umberto Saba
Costruiamola la nostra casa dei sogni, immaginiamo i luoghi dove ci sentiamo sicuri, sogniamo la capanna, il nido, il guscio, gli angoli, in cui vorremmo rannicchiarci, come un animale nella sua tana. Troveremo la ricchezza e dinamicità di immagini e di archetipi che si fondano sul fatto che l’immaginazione si presta ad accettare le più intense contraddizioni: la casa ben radicata ama avere una soffitta che si sposta aperta al vento e al viaggio. Così nello scoprire le nostre aspirazioni a vivere in una capanna o in un palazzo, troveremo che chi possiede la casa nel palazzo sogna la capanna, chi ha la capanna sogna il palazzo.
Forse è più giusto dire che ci sono momenti di capanna e momenti di palazzo, ore francescane ed ore da aquila sulla città. Al tempo stesso, si oscilla dalla casa concentrata alla casa in espansione, perché abbiamo bisogno di appartarci e di espanderci, di semplicità e di grandiosità: nel grattacielo che domina la città, gli uomini e l’universo, viene conservata una capanna per rannicchiarsi nel più grande dei riposi, perciò alla casa sognata non deve mancare una capanna, un nido: l’intimità ha bisogno del cuore di un nido.
Da buoni sognatori di case, andiamo ad abitare le immagini dei poeti, alla ricerca della casa dei sogni. E’ un modo per meglio conoscere se stessi. Non troveremo semplici sogni di proprietario, di tutto ciò che è giudicato comodo, confortevole, solido, cioè di tutto ciò che è desiderabile da parte degli altri. D’altronde la caratteristica dei sognatori di dimore è quella di saper alloggiare dappertutto, senza lasciarsi rinchiudere da nessuna parte, nella casa reale come nella casa sognata. Scopriremo che gli spazi amati non sempre si possono rinchiudere, essi piuttosto si dispiegano. A fronte della casa fortino, troviamo case dai muri flessibili, che si stringono intorno al suo abitante e si allentano estendendosi all’infinito. Così, insieme a questa flessibilità, scopriremo che la casa respira, di un respiro cosmico. Ed allora si aprirà il repertorio delle immagini delle case leggere: la casa del respiro, la casa della voce, la casa degli odori.
Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove on fui mai.
Biglietto lasciato prima di non andar via, Giorgio Caproni
Immaginiamo, lasciandoci prendere dal sentimento del rifugio e dai moti del ripiegamento insiti nei muscoli, l’uomo che si stringe su se stesso, si ritira, si rannicchia, si nasconde. Godiamo dell’immaginazione di una felicità anche fisica.
Mi comprimo in te
mi abbandono
il sonno arriva
così prudente
a portarmi un po’ via …
L’allegria Giuseppe Ungaretti
Che progressione! Riviviamola con la lettura e vedrete che arriverà il sonno a portarvi un po’ via.
Facciamo un sogno di capanna, senza che sia necessario fuggire col pensiero dalla casa reale. Ascoltando il silenzio della veglia, la stufa che ronfa, il vento che assedia la casa, immaginiamo di vivere in mezzo ai boschi, in una capanna ben riscaldata dal fuoco vivo. Ci sentiamo al riparo dalla fame e dal freddo. Immaginiamo che la nostra casa sia per noi una capanna.
Il sogno di capanna è il sogno della casa povera, nuda, essenziale, che può ritrovarsi anche in un edificio cittadino o in una abitazione stalla: “Una costruzione ad un piano. Sa di abitazione e di stalla. C’è modo di poterci ospitare due mucche, di poterci conservare alcune balle di fieno e alcuni sacchi di granoturco. E nel piano, le stanze degli inquilini, piccole stanzette scure, proprio sotto il tetto che le copre … E’ la povertà purissima che ha muri nudi intorno a lei, ma sono puliti, bianchi di calce e sani. L’impressione che si prova … è la commozione … Si rimane toccati” San Giovanni Bosco, Henri Bosco. E’ la casa abitata da valori, da Sorella Povertà direbbe Francesco d’Assisi.
La capanna è anche la casa dell’eremita, dove si gode di una felice ed intensa povertà, di tutti i valori di intimità e del riposo. L’eremita è solo davanti a Dio, e la sua capanna è l’anticipazione della cella del monastero.
La capanna francescana dell’eremita ci mette in cammino.
La capanna appartiene a chi ha familiarità con la solitudine.
Da queste immagini sappiamo che chiedere ad una persona, non solo ad un bambino, di disegnare la casa, vuol dire chiedergli di rivelare il sogno più profondo, in cui vuole riparare la propria felicità; se è felice, egli saprà trovare la casa chiusa e protetta, la casa solida e dalle profonde radici.
Invitiamo a sognare una dimora, l’interno di una casa; possiamo chiedere non la propria camera familiare e reale, ma l’immagine della casa dei sogni: la dimora dei nostri sogni, dove vive la propria cellula di intimità, la camera interiore che portiamo in noi e dove abita il proprio essere segreto.
Quella stessa persona ci direbbe tutta la propria vita, se gli chiedessimo di raccontare di tutte le porte che gli si sono chiuse, aperte, di tutte le porte che vorrebbe riaprire.
E se la sua immaginazione si spingesse ancora più in profondità, scoprirebbe che la vita comincia bene, incomincia tutta protetta e tutta tiepida nel grembo della casa: nelle nostre fantasie, la casa è una grande culla. “Culla”, conserviamo la tenerezza che si condensa in questa parola. Diciamola questa parola, consola e aiuta a dormire. Ciascuno potrà dire: “Nella mia culla, che grande sonno per l’infanzia”. In una culla si conosce il vero sonno, perché si dorme nella madre, si dorme al femminile.
Non possiamo immaginare la casa vissuta senza le immagini della porta. L’immaginario della casa vive dell’accumulo di desideri e di tentazioni verso le porte chiuse, sbarrate, con paletto o catenaccio, così da aprire, o meglio riaprire, porte rimaste troppo a lungo inesorabilmente chiuse.
La porta è davanti a noi; a che serve desiderare?
Meglio sarebbe andare senza più speranza.
Non entreremo mai. Siamo stanchi di vederla.
La porta aprendosi liberò tutto il silenzio
Che nessun fiore apparve, né verzieri;
Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce
apparve d’improvviso da parte a parte, colmò il cuore,
Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere.
La porta, Simone Weil
Ma più che davanti alle porte chiuse o verso le porte spalancate, è sulle porte socchiuse e sulla soglia che si generano immagini dell’esitazione, della tentazione, del desiderio, della sicurezza, dell’accoglienza, del rifiuto, del rispetto.
Immagina: “Laide di notte, lasciava sempre la porta socchiusa, per udirmi, se per caso chiamavo. Potevo sentirmi male, diceva, o aver paura. I bambini hanno degli incubi e, quando si svegliano, non sanno più dove sono … Io li avevo gli incubi e, Laide, benché il suo sonno fosse pesante, mi udiva gemere, gridare, sussultare nel letto, singhiozzare … Ogni volta, con una parola mi rassicurava. Una frase semplice, sempre la stessa: “non è niente, piccino, ci sono qua io”. Ed io mi tranquillizzavo udendola dire, dolcemente, che c’era lei. Persino nel sonno, pensavo, bada al mio sonno. Mi custodisce” Tonino, Henri Bosco
Ora immaginiamo e seguiamo il gesto di aprire una porta. A cosa ci apre? La porta aperta, spalancata ci dà una sensazione di libertà? O di accoglienza? Verso chi si apre la porta?
Oppure immaginiamo una porta appena socchiusa. Restiamo esitanti sulla soglia. Chi scopriamo?
Oppure immaginiamo e seguiamo il gesto del chiudere una porta con cura. E’ un’immagine che ci dà sicurezza?
Tornate a casa, a tarda sera: “Quando arrivai sul pianerottolo, dove Laide aveva messo una lampada da notte, non osai spingere la porta della sua camera, socchiusa come al solito. Mi accontentai di avvicinarmi. Laide dormiva tranquillamente. Lo si capiva dal suo respiro regolare. Per un momento rimasi ad ascoltare. Quando fui sicuro che in quel respiro non c’erano mutamenti, ch’esso era buono, quieto, senza scosse, mi ritirai nella mia camera, e mi infilai nel letto. Avevo avuto la cura di lasciare la mia porta accostata, per il caso in cui Laide, angosciata da qualche brutto sogno, gemesse o chiamasse. Sapevo che cosa avrei dovuto rispondere … pensando a queste cose e quasi con la speranza che accadessero, mi addormentai dolcissimamente” Tonino, Henri Bosco.
Ascoltiamo, con la porta chiusa, ancora insieme con Henri Bosco, e immaginiamo: “Allora, come un filo di vita, sentivo passare il suo respiro. Lei dormiva”. Il fanciullo e il fiume, Henri Bosco.