Angeli incerti della terra

 

Angeli incerti della terra

Ascese e discese interessano l’immagine della scala che attraversa il confine, la soglia tra mondo terrestre e realtà spirituale. Lungo questa scala troviamo gli Angeli come attori essenziali: l’Angelo messaggero, l’Angelo custode, l’Angelo caduto; sono tutti Angeli passeggeri che vanno su e giù attratti dal Principio e che, in qualche modo, tratteniamo dal ridistendere le grandi ali attraverso le nostre invocazioni.

Ma non fermiamoci a questa rappresentazione esteriore della scala, dell’asse verticale: il Paese angelico è in noi, si ritira nel cuore di noi creature. Come le immagini di casa e ponte, di aria e acqua, di porta e finestra, di fonte ed albero, anche quelle della scala, sono prima in noi, le portiamo nell’anima, e solo lì possiamo ricordarle e viverle.

A lungo tenni stretto a me il mio Angelo,
e lui infine s’intristì fra le mie braccia
divenne piccolo, ed io grande:
finché fui io la compassione,
e lui soltanto una preghiera tremante.
Solo allora gli ridiedi i suoi cieli,
svanendo, mi lasciò le cose sue più intime;
lui apprese il volo, io imparai la vita
e lentamente l’un l’altro ci riconoscemmo.

Angel of Light, Rainer Maria Rilke

Gli Angeli di Rilke che qui proponiamo hanno un pò del nostro essere. Non più Angeli custodi e guida, piuttosto sono Angeli in crisi, incerti, sono gli Angeli dei disegni di Klee del ’36: Angeli Nuovi, infanti, che appunto non sanno più custodire e guidare, né pretendono, chiedono, interrogano.

E’ l’Angelo che finisce per rivelarsi “necessario”, come dice il titolo del libro di Massimo Cacciari, riprendendo un mirabile lirica di Wallace Stevens, della quale riportiamo una parte.

Sono gli Angeli della terra:

Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra,
poiché chi vede me vede di nuovo
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d’acqua, come un significato
che si cerchi per ripetizioni, approssimando.

L’Angelo necessario, Wallace Stevens

L’Angelo della terra è un pò come noi e perciò può aiutarci a liberare la mente. Per sapere di più del nostro essere terreno e divino, ascoltiamo il levarsi di questo canto di Stevens in liquide lentezze, abbandoniamoci alle ripetizioni per cogliere i significati, sempre approssimando.

Gli Angeli della terra di Stevens sono Angeli della non-storia, seguono gli uomini e si lasciano coinvolgere nel nostro tempo presente. A volte sono felici di questa loro impotenza, perché è per questa stessa fragilità dell’infanzia che la nostra invocazione li raggiunge.

«Voi, voi che noi amiamo, voi non ci vedete, non ci sentite. Ci credete molto lontani, eppure siamo così vicini …»: comincia così, con questa malinconica riflessione dell’Angelo Cassiel, Così lontano, così vicino!, il film con cui Wim Wenders riprende il discorso iniziato con Il cielo sopra Berlino. E ancora, l’Angelo Cassiel dice: “Gli uomini credono di aver conquistato il mondo. Ma è il mondo che ha conquistato loro”.

Wim Wenders ci tiene a mostrare che gli Angeli sono più vicini di quanto pensiamo, anche se non riusciamo a percepirli. Crede che sentirne la presenza senza vederli, sentirli o toccarli sia davvero una questione di fede, di atteggiamento personale. “Oggi la gente è convinta di poter credere soltanto in ciò che vede. Viviamo in una strana epoca in cui siamo circondati quasi esclusivamente da cose create da noi. Tutte immagini di seconda mano, riproduzioni della realtà”.

Crediamo agli Angeli di Wim Wenders, al loro modo di porsi: hanno lunghe ali, bianche e invisibili, hanno l’aspetto di uomini di mezza età, con lunghi cappotti neri. Osservano. Dalle torri e dalle guglie delle cattedrali guardano, ascoltano tutte le voci. Possono ascoltare e vedere solo in bianco e nero. Non provano dolori, non sentono sapori. Sono tra noi, accompagnano le vite dei mortali. Solo i bambini li possono vedere, senza mai spaventarsi.

Siamo ben lontani dalle immagini statiche e assolute dell’Angelo trionfale, tradizionale e stereotipo. E a guardar bene, l’immagine dell’Angelo non appare pienamente trionfante neppure al culmine del barocco. Nella stessa angelologia berniniana, non sono tutti espressione di potenza, di immutabile felicità, nel sorriso senza ombre di cori celesti.

Cerchiamo le nostre affinità elettive. Accanto agli Angeli trionfanti, rappresentati sempre nel pieno fiore degli anni, eppure incerti, fanno da controcampo quelli adolescenti rappresentati come ermafroditi. Questi appaiono in rapporto con l’uomo, gli recano messaggi; nella scultura dell’Estasi di santa Teresa, l’Angelo colpisce con lo strale dell’amore divino la santa. Non è certo trionfante e distaccato, è piuttosto coinvolto in un dolce languire.

Questi Angeli possiamo immaginarli anche senza ali. Sono numerosi gli esempi di affreschi paleocristiani dell’Angelo senza ali, dell’Angelo-uomo. Al Tasso si presenta il messaggero giovane, che “non avea le guance d’alcun pelo coperte” ma senza ali, e si chiede se è un Angelo, se è uno di quelli ai quali fu detto “voi che intendendo il terzo ciel movete”, e se fosse uno di loro, perché ha deposto le ali?

Proviamo ad entrare in sintonia con l’allegria e il riso degli Angeli-uccelli di Leopardi. Sono “le più liete creature del mondo” cantate nell’ Elogio agli uccelli (in Operette Morali). La loro esistenza è un canto, un volo, un riso. Di queste creature vocali e aeree Leopardi fa una felice angelologia partecipe della natura. “Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell’aspetto lietissimi; e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura denotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole. (…) Nelle quali cose è notabile che quello che pare ameno e leggiadro a noi, quello pare anche a loro”.

Hanno l’ubiquità dell’Angelo: “Cangian luogo a ogni tratto”. E “veramente molto conforto e diletto ci porge (…) l’udire il canto degli uccelli. E ciò credo io che nasca principalmente, non dalla soavità de’ suoni, quanta che ella si sia, né dalla loro varietà, né dalla convenienza scambievole; ma da quella significazione di allegrezza che è contenuta per natura, sì nel canto in genere, e sì nel canto degli uccelli in ispecie. Il quale è, come a dire, un riso, che l’uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente. Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali”.

Insieme al canto e al volo, l’espressione più propria di questi Angeli-uccelli è il riso: né parlano, né cantano propriamente, ma ridono. Lasciamoci contagiare dal riso degli Angeli-uccelli di Leopardi, è il riso dell’Angelo che appartiene anche all’uomo, all’uomo più vecchio e disperato.

“Quanto più l’uomo cresce (…) e crescendo si fa incapace di felicità, tanto più egli si fa proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto” Zibaldone, Leopardi.

E ancora è il vecchio ebbro a trovare il più fugace degli istanti in cui è dato ridere e cantare. Proviamo una profonda simpatia per il riso ebbro di questo vecchio. Sono soltanto istanti felici di riso e canto, null’altro che istanti, dati all’Angelo-uccello e all’uomo, per interrompere il male della vita. E di questi istanti rimane perpetuo il canto.

Ma veramente il sorriso dell’Angelo non appartiene soltanto al vecchio, non ha età, è Angelo sempre nuovo, è l’Angelo che fa capolino nel film Teorema di Pier Paolo Pasolini, il postino riccetto, tra innocente e sfacciato, ridarello e canterino, che porta la sua inutile posta, perché nessuno l’aspetta e nessuno la apre. Quello che comunica è la pura e semplice felicità. Questo Angelo Nuovo abita il giardino dell’infanzia, è infante che non possiede, non afferra, non dispone. Ha la smemoratezza dell’“uccel divino” dantesco, quell’oblio perfetto e animale che lo rende felice.

Pura infanzia è quella dell’Angelo Nuovo, affine all’infanzia dell’animale. Nel “giallo de la rosa sempiterna” (Paradiso) balenano Angelo e ape e farfalla. La forma della rosa, come profondo interno, con i suoi infiniti giri che stringono indissolubilmente, è forma completa. Rilke paragona l’interno della rosa, che si accarezza e si contiene, ad una dimora angelica. Ma la rosa degli Angeli, col suo accarezzarsi e contenersi, non racchiuderà tanto gli Angeli da impedire che il loro sguardo possa raggiungerci?

Il Paradiso è immaginato come un concerto di polifonia vocale e strumentale, cui partecipano gli astri, i cori angelici e gli spiriti beati. All’apice della scala dei valori musicali c’è l’armonia e la simpatia di diversi elementi intrecciati nel ritmo della liturgia celeste.

Lasciamo la visione musicale polifonica e angelica dantesca. Poniamoci “sulla soglia”, in attesa di apparizioni, che possiamo riconoscere angeliche. Immaginiamo, sulla soglia, con Pasternak:

Ma inaspettatamente per la tenda
scorreva il tremito di un’irruzione
Misurando nei passi il silenzio,
come l’avvenire tu verrai.
Tu apparirai sulla soglia, indossando
qualcosa di bianco senza stranezze,
qualcosa proprio di quelle stoffe
di cui si cuciono i fiocchi di neve.

Non ci sarà nessuno a casa, Pasternak

E se la soglia fosse più estesamente il limite incerto tra la funzione di realtà e la funzione di irrealtà! Tra l’apparire e l’essere! Allora potremmo cogliere il senso dell’interrogativo finale de L’Angelo necessario di Wallace Stevens?

 

O forse io sono soltanto una figura a metà,
intravista un istante, un’invenzione della mente,
un’apparizione tanto lieve all’apparenza
che basta ch’io volga

 le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?

 

E se la soglia fosse lo schermo, l’immagine tesa sulla quale si proietta l’attesa senza aspettare nessuno!

Dall’immagine tesa
voglio l’istante
con immanenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:

ma deve venire,
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.

L’immagine tesa, Clemente Rebora

Sono immagini che rievocano l’Angelo Nuovo di Klee: è istante e realtà inafferrabili, passaggio e pazienza insieme, istante liberato dal demone della necessità, dal continuo della successione dei momenti: buco, rottura, strappo che arresta la freccia del tempo, che interrompe il continuo apparente del Tempo-Chronos.

Superiamo la soglia e immaginiamo con Kafka, in attesa dell’apparizione dell’Angelo Nuovo nella stanza. Entriamo nella stanza dove il protagonista dalla mattina al tramonto è andato su e giù, tanto da conoscerne ogni inezia. Ecco che la stanza comincia a trasformarsi, si aprono lunghe fratture nelle pareti, ondate di colore invadono lo spazio.

“Ciò valeva per me, senza alcun dubbio, si stava preparando un’apparizione che doveva liberarmi. Ciò che voleva venire, stava scendendo verso di me ad annunciarmi ciò che doveva annunciare. Un Angelo, dunque, pensai. Tutto il giorno vola verso di me e io, scettico come sono, non lo sapevo. Adesso mi parlerà. Abbassai lo sguardo, ma quando lo risollevai l’Angelo …”. Diari, F. Kafka

Immaginiamo il possibile seguito di questa visione, il cambio di scena, dopo che l’Angelo è apparso, per un istante, “vestito di panni viola-azzurro, cinto di cordoni d’oro, con grandi ali bianche dal fulgore di seta, la spada vibrata orizzontalmente nella mano sollevata”. Invece dell’annuncio la trasformazione, il cambio di scena. Un istante dopo l’apparizione dell’Angelo, in un batter del ciglio, non più l’Angelo vivo si libra sotto il soffitto della stanza, ma una figura di legno dipinto: l’impugnatura della spada serviva da candeliere e alla debole luce dell’Angelo, Kafka, rimase poi seduto fino a notte.

Non si tratta di un’allucinazione o di un inganno. Infine, la luce della candela può ancora essere la debole luce dell’Angelo. Anzi, l’Angelo annuncia la sua trasformazione, il suo essere incompiuto, incerto, mai sicuro, oscillante tra presenza e oblio. Ne deriva un’immagine più vicina alla nostra natura, e lontana dall’Angelo trionfante più tradizionale e stereotipo.

Di fronte alle visioni angeliche, di santi o poeti, possiamo rimanere nell’incertezza, sul da dove vengono le visioni, rimanendo a riposo davanti alla debole luce. Oppure, può essere essenziale chiedersi da dove provengono, e distinguere le visioni angeliche dalle produzioni dell’immaginazione, in quanto quest’ultime hanno a che fare comunque col sensibile. santa Teresa di Gesù, con san Juan de la Cruz, distingue e riconosce minor valore alle visioni di fantasia e alle visioni immaginarie che si vedono con gli occhi dell’anima. Altra cosa è quella “grazia insigne” che fa sentire il Cristo vicino, senza che neppure gli occhi dell’anima possano vederlo. E’ quella visione di Cristo che nessuna immagine può contenere e a cui nessuna immagine si accompagna. La santa non ha dubbi che il sentire la presenza del Cristo abbia provenienza celeste. E’ visione invisibile dell’immagine eterna che si dà soltanto nella perfetta assenza di immagine. La possibilità di tali visioni, in san Juan come in santa Teresa di Gesù, sta nell’abbandono totale in Dio e nel farsi specchio, per quanto è possibile, del silenzio e del mistero di Dio.