In ascolto, in solitudine

 

In ascolto, in solitudine

Le mie ore di desiderio solitario

Il tempo ritrovato, Marcel Proust

L’uomo solo ascolta la voce calma
con lo sguardo socchiuso, quasi un respiro
gli alitasse sul volto, un respiro amico
che risale, incredibile, dal tempo andato.

L’uomo solo ascolta la voce antica
che i suoi padri, nei tempi, hanno udito, chiara
e raccolta, una voce che come il verde
degli stagni e dei colli incupisce a sera.

L’uomo solo conosce una voce d’ombra,
carezzante, che sgorga nei toni calmi
di una polla segreta: la beve intento,
occhi chiusi, e non pare che l’abbia accanto.

E’ la voce che un giorno ha fermato il padre
di suo padre, e ciascuno del sangue morto.
Una voce di donna che suona segreta
sulla soglia di casa, al cadere del buio.

La casa, Cesare Pavese

Nel silenzio della solitudine possiamo ascoltare, senza vedere, la voce calma, antica, una voce d’ombra, che è un soffio, la carezza di un respiro amico ed antico. In solitudine ritornano gli echi di una voce segreta, fissata nel tempo.

Soddisfacciamo questo nostro desiderio di solitudine, mettendoci in ascolto, con Pavese, delle voci antiche, ad occhi semichiusi, sulla soglia tra sonno e veglia, a sentire il respiro e la carezza di una voce segreta. La solitudine ha un’origine lontana, è una predisposizione alla calma quiete, al nulla, dalla quale si dà l’ascolto di voci lontane e profonde, che ci riguardano.

Ci sono elementi primordiali e naturali che invitano a porci in ascolto fuori del tempo, e a perderci per ritrovarci:

Aspetto
e ascolto.
L’acqua,
da quanti milioni di anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso.

Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, Giorgio Caproni

Bachelard ci parla del sognatore solitario di candela: “La fiamma è un mondo per l’uomo solo.
E se il sognatore di fiamma parla alla fiamma, parla a se stesso, ed eccolo poeta” La fiamma di una candela. La fiamma brucia da sola, l’uomo sogna solo, due solitudini si accompagnano.

Sono immagini che ci illuminano sul fenomeno della solitudine ascoltante e fantasticante.

Mettiamoci in solitudine con i poeti: l’atto di poesia esige l’assoluta solitudine, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte, come un dannato, sotto il peso d’una speciale responsabilità, quella di scoprire un segreto – e di rivelarlo agli altri. E la solitudine, con i poeti, per fantasticare, ha le sue esigenze, come l’anima del resto, che privata dell’ombra, finirebbe senza dubbio col disconoscere le meravigliose virtù della luce, da cui nasce appunto la felicità. Così la solitudine non è mai in piena luce, ha bisogno dell’ombra portatrice di un mistero che attrae e di un’umanità che avvicina. “L’altra faccia era rivolta all’ombra. Vi si nascondeva come un pensiero attento. In quell’ammasso oscuro di fogliame per metà tenebroso, tutto era mistero e presenza nascosta. Laggiù c’era un testimone invisibile, qualcuno. (…) Tuttavia, da quell’ombra, emanava il pensiero notturno di una singolare potenza, nume del luogo ” Tonino, Henri Bosco.

Come il bambino che è in noi, ogni grande sognatore è fondamentalmente solo e ombroso. Forse per questo, nelle immaginazioni tranquille, in penombra, spesso prendiamo la strada che ci porta alle nostre solitudini infantili. Le solitudini d’oggi ci restituiscono le prime solitudini.

Il rifugio ombroso ci dà conforto, immaginiamo di sentire da lì dei rumori familiari:“Andò in estasi come una bambina per quel rifugio ombroso al riparo dagli sguardi, ma dove giungevano, traverso il fogliame, tutti quei rumori così confortanti che d’estate s’alzano dall’aia durante la battitura.” La fattoria, Henri Bosco. In questa distensione dello spirito e dell’udito, si può andare in estasi, tanto è dolce e rassicurante ascoltare attraverso.

Queste prime solitudini, solitudini infantili, lasciano in certi animi tracce indelebili, che non sono necessariamente ricordi, pronte ad alimentare la nostra immaginazione. Sono solitudini che ci trasferiscono nella purezza, poi nella semplicità, poi nell’immobilità. L’uomo è rapito fuori di sé. Nessuno sta così bene come chi è nella massima solitudine, tanto da diffondere tale pace.

Nel deserto della mia solitudine
sono cresciuti
migliaia di alberi solitari.

Un lupo in agguato, Abbas Kiarostami

Non si è mai soli ad essere in solitudine. L’immagine degli alberi solitari è l’immagine del moltiplicarsi delle solitudini, dell’assenza che è propria della solitudine. Pensiamo al moltiplicarsi delle solitudini amorose delle coppie nel deserto del film Zabriski Point di Michelangelo Antonioni.

Desertifichiamo la casa, diamoci al riposo immaginifico nell’intimità protetta, in un angolo (della casa). Poniamoci in ogni realtà fisica e psichica che rimandi alle immagini del guscio o del nido, come nella chiusa di Le suppliche di Giuseppe Ungaretti:

Ora accucciato in me
ora dormire

Perché mi gravi
Tranquillità.

Accucciarsi in sé è una condizione di raccoglimento e di intimità senza fine:

Mi sedetti accanto
(tutto accanto)
a me.
(…)
Mi strinsi sempre più accanto
(sempre più accanto)
a me.

La làmina, Giorgio Caproni

Ritirarsi su se stessi è occuparsi di tutto, ma di nulla preoccuparsi, né cercare meriti o gratificazioni, come dice la lauda di Iacopone:

Merito non procacci,
ma merito sempre trovi,
lumi con doni novi,
gli qual non addemandi,
se prendi, tanto abbracci,
che non tene removi,
e gioie sempre novi
ove tutta te spandi.

Per immedesimarci in noi stessi, caliamoci nella dimensione dell’uomo davanti al focolare, ritiriamoci nella propria intimità, con l’immaginazione liberata dalle sollecitazioni del racconto familiare che sempre si ripropone per identificarci. Pensiamo alle immagini di un uomo solitario davanti al fuoco primordiale. Attorno a questo fuoco si concentrano i protettori dei tre elementi naturali ostili al fuoco del focolare: il tetto, che protegge ed unifica, il recinto, come involucro permeabile e trasparente, il basamento, che radica la capanna sulla terra. Andiamo più in profondità. Lì ritroviamo l’uomo pensoso, tutt’altro che pensatore, l’uomo che pensa e sogna vicino al suo focolare, semplicemente sicuro e protetto, nella solitudine e in un leggero stato di ipnotismo.

Immaginiamo il Natale e la stanchezza buona di Ungaretti:

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Natale, Giuseppe Ungaretti

Ungaretti ci fa sentire cos’è la stanchezza buona: diventare cosa posata e dimenticata, riposare, mantenere la coscienza di se stessi e gioire di sciogliere la stanchezza, quando la stanchezza si muta in abbandono e l’abbandono dà una sensazione di buono e di leggero, “di vita su cui io galleggio, come su un’acqua calma galleggia un pezzetto di sughero” Tonino, Henri Bosco.

Sarò come colui che si distende
sotto l’ombra d’un grande albero carco,
ormai sazio di trar balestra od arco;
e in su ’l capo il maturo frutto pende.

Piacere, Gabriele D’Annunzio

Lasciamoci andare dopo la sazietà del tirare, affidandoci all’ombra di un albero carico di frutti solo da raccogliere al suolo.

Rilke ha un’intuizione sulla felicità e la caduta che ci fa pensare alla stanchezza buona:

E’ noi che la felicità la pensiamo
in ascesa, sentiremmo la commozione,
che quasi ci atterra sgomenti,
per una cosa felice che cade.

Elegie duinesi

La stanchezza buona è un cadere dritti senza mettere le mani avanti. Non è uno sfinimento, un esaurimento di energie. E’ un felice cedere ad un riposo attivo.

Mettiamoci a sognare da soli davanti ad una fiamma, di una stufa, di un camino, di una candela. Abitiamo la casa insieme al fuoco. La fiamma è viva, brucia bene. Un soffio la scompone, ma subito si riaddrizza. Uno schioppettio viene a turbare il suo slancio verso l’alto, la fiamma subito reagisce. Ora la fiamma si allunga, si affina. Il sognatore fa salire il suo sogno verso la cima, ritrova la volontà di bruciare alto, di andare con tutte le sue forze verso le punte della fiamma, ed ancora teso verso un al di là diventa un essere etereo.

Questa spinta ascensionale del suo sognare non è il frutto di uno sforzo della volontà, del battersi contro le fiamme infernali, è godere di dolcezze d’anima. Il pensiero attivo ed utilitarista è messo a riposo. Il sognatore solitario ha fede che, sempre bruciando, la fiamma si rinfiamma. Eppure, il brusio della fiamma dice tutte le lotte che è necessario sostenere per mantenerla viva. Ma il sognatore non l’ode, non guarda, sogna.

Il sognatore sa che il fuoco presenta valori contrastanti: è celeste e infernale, è benefattore e distruttore. Anche davanti al caminetto, quando attizziamo il fuoco o lo vediamo nascere morire sotto le ceneri, oltre ad essere l’immagine della vitalità, della potenza, della forza di volontà, il fuoco è l’immagine più grande e più completa dell’annichilimento, col suo rimandare al rogo, alla morte tra le fiamme. Allora, dal camino domestico, le immagini si ingrandiscono, diventano cosmiche, il camino diventa una fornace e noi attizziamo il fuoco, gonfiandolo d’aria con l’immenso soffio di un gran mantice.

Ma accanto alle immagini così potenti del fuoco, accanto alle immagini che incitano all’azione e alla violenza, noi abbiamo, con i poeti e con i santi, immagini che ci insegnano, con tutta l’immaginazione basata sugli elementi primari naturali, il calore diffuso, il calore dolce, un calore così fedele, da essere un archetipo dell’immagine della femminilità, del riposo e della felicità.

Immaginiamo Jung, a Bollingen, solo, nella sua Torre circolare, una sera, seduto davanti al camino, dove ha messo un calderone sul fuoco a riscaldare l’acqua per lavarsi. “Quando l’acqua cominciò a bollire, la caldaia prese a cantare. Sembrava che fossero molte voci, o degli strumenti a corda, e risuonava come un’intera orchestra. (…) Era proprio come se ci fosse un’orchestra all’interno della torre e un’altra al di fuori. (…) Sedevo e ascoltavo affascinato. Per più di un’ora ascoltai il concerto, questa melodia naturale. Era una musica dolce, pur contenendo tutte le disarmonie della natura. (…) Così era la musica: uno scrosciare di suoni, che avevano la qualità dell’acqua e del vento, così singolari che è impossibile descriverli”.

Jung, che grande sognatore, non guarda, è tutto ascolto degli elementi naturali, dell’acqua, del vento.

Il benessere che proviamo, soli, davanti al fuoco è ancora più profondo quando infuria il cattivo tempo, allora è benessere veramente animale. Il topo nel suo buco, il coniglio nella sua tana, la vacca nella stalla devono essere felici come noi.

Immaginiamo di scaldarci in un umile rifugio di montagna, tutto buio, a parte la brace: un fuocherello alimentato con qualche fuscello. Due manciate di carbonella sonnecchianti sotto la cenere, di cui qualche tizzone manda ancora un po’ di chiarore e qualche guizzo di fiamma repentina …

Questo star bene ci restituisce la primitività del rifugio.

Immaginiamo il bambino a sedere tranquillo e solo davanti al focolare, con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani, gli occhi chiusi sulla brace rossa del fuoco, dove escono, con mille forme e con mille ondeggiamenti, fiamme bianche e azzurre; là regna il benessere psichico ed insieme il rispetto: quando si vuol giocare troppo da vicino con le sue fiamme il fuoco punisce: col fuoco non si scherza. Sono le immagini del bambino solitario che ci aiutano, insieme alle immagini dei poeti, a farci rivelare l’infanzia psicologicamente bella.

E’ sempre un sognare in solitudine a sognare la casa: la casa nativa, la casa sognata, la capanna, in un angolo, davanti al focolare o ad una lampada, sono tutte condizioni dello spirito che si alimentano di immagini della solitudine. In questa solitudine fantasticante, i ricordi tristi si rasserenano – almeno nella malinconia, in una dolce malinconia. E’ la lontana malinconia del bambino che fantastica, in felice accordo con la malinconia leggera da cui nasce ogni sognare ad occhi aperti.

Queste fantasie malinconiche e solitarie vanno sostenute, non sono affatto nocive. Sono di aiuto al nostro riposo. Il riposo offerto dal fantasticare in solitudine ha infatti una sostanza, la sostanza della malinconia tranquilla, la malinconia, senza motivo, del bambino solitario.

Dolcezza del passato che si rimembra
attraverso le brume del tempo
e le brume della memoria.

Dolcezza di rivedere se stesso bambino,
nella vecchia casa dalle pietre troppo annerite.

Dolcezza di ritrovare il proprio volto rimpicciolito
di bimbo pensoso, la fronte appiccicata ai vetri.

Le miroir du ciel natal, Georges Rodenbach

 

Sono dolci immagini in dissolvenza, opalescenze, brume, nebbioline, è l’infanzia oziosa, silenziosa e malinconica, la vita tranquilla. Rodenbach ci insegna a rivedere dolcemente, a ritrovare fedelmente. Rianima in noi la nostalgia della malinconia primitiva, la simpatia per questo bambino pensoso, con la fronte appiccicata ai vetri. Sì, l’immagine del bimbo pensoso, con la faccia appiccicata ai vetri, è il fotogramma della verità del sognare in solitudine.

Ma è poi, avanti negli anni, che la si conosce a fondo la malinconia:

Da giovane non conoscevo il gusto
Della malinconia.
Allora mi piaceva
Di salire in soffitta –
E salito in soffitta,
Poi per comporre dei poemi nuovi
Cercavo di sentirmi malinconico.
Or la malinconia

La conosco a fondo,
Vorrei parlarne – ed esito,
Vorrei parlarne – ed esito …
Mi contento di dire
“Oh, com’è bello questo fresco autunno!”

La malinconia, Sin K’i-Tsi

 

Sono ore senza parole, avvenimenti, senza orologio, che vivono ancora in noi, anche al di là dei ricordi. Non è detto che siamo effettivamente stati questo bambino triste e silenzioso. Non sono i ricordi a fare raccontare queste ore benefiche, tranquillizzanti. E’ il fantasticare che ce le offre, perché c’è in noi, tra tutte le infanzie, l’infanzia malinconica, l’infanzia che aveva già la serietà e la nobiltà dell’umano.

Se preferiamo evocare case, interni, angoli è perché, per sognare bene, leggeri, non abbiamo bisogno di immagini di grandi spazi, di deserti.

Con questo spirito, potremmo allora chiederci, con Tonino di Henri Bosco: prediligiamo, per le nostre fantasie solitarie, il muro alto e oscuro che chiude la vista? o la casa dove non vive nessuno? “Il muro si drizzava (…)  davanti alle case, lungo tutto il vicolo. Alto e oscuro, esso chiudeva la vista. (…)  Sia il muro che le case esercitavano su di me un potente richiamo: il muro, senza dubbio, a causa dell’ostacolo che opponeva ai miei desideri; la casa, perché apriva, ai miei stessi desideri uno spiraglio d’ombre, di silenzi, il mistero dei rifugi chiusi, delle facciate mute contro cui facilmente si arrestano i sogni. Ma, per quanto grande fosse il fascino della casa, il muro esercitava sui miei sentimenti e sui miei pensieri un prestigio ancor più forte. Era il luogo più propizio alla nascita delle mie emozioni; ossessionava il mio spirito. Lo prediligevo.

Eppure, non era che un muro grigio, un vecchio muro di pietra porosa, scavato da trenta o quarant’anni di piogge corrosive. Qua e là, l’intonaco s’era staccato in grossi pezzi”. Tonino, Henri Bosco

Non appena siamo soli, immobili, ci troviamo altrove, lo spazio può distendersi senza limite, sogniamo in un mondo immenso. Ed è facile rendersi conto che i sogni, nella solitudine felice, sono immancabilmente cosmici: abbiamo l’impressione di essere soli al mondo, di cogliere l’anima del mondo, di partecipare all’anima del mondo.

L’infanzia è uno stato d’animo, un grande riposo benefico, in solitudine, che si approfondisce seguendo l’immaginazione del poeta. Ascoltiamo Baudelaire che ascolta Wagner: ”Mi sentivo liberato dai legami della pesantezza e ritrovavo, nel ricordo, la straordinaria voluttà che circola nei luoghi alti. Così accarezzavo involontariamente lo stato delizioso di un uomo in preda ad un grande sogno, in una solitudine assoluta, ma una solitudine con un immenso orizzonte ed una luce diffusa: l’immensità senza altra bellezza che se stessa”. Questa solitudine leggera apre all’immensità assoluta, ad un’espansione in un mondo senza limiti, che è una conquista della sintesi di intimità e di profondità, e progredisce e si espande nella misura in cui l’intimità si approfondisce ed espande.

Quando vive le immagini di immensità, il sognatore si sente liberato dalle preoccupazioni, dai pensieri. Sembra allora che lo spazio dell’intimità e lo spazio del mondo entrino in sintonia, proprio attraverso la loro immensità.

Cogliamo le intimità e le immensità proprie della solitudine, leggendo una lettera di Rilke: ”quella solitudine illimitata che fa di ogni giorno una vita, verso quella comunione con l’universo, lo spazio di una parola, lo spazio invisibile che all’uomo è tuttavia consentito abitare e che lo circonda con innumerevoli presenze”. Rilke ci invita a scoprire che in ogni momento, in ogni luogo, in ogni oggetto, in ogni parola, investiti di spazio intimo e solitario, coesistono il lontano e il presente, il centro quanto l’orizzonte, l’intimità quanto l’immensità.

Per provare come l’immensità sia una dimensione intima, nella solitudine, tuffiamoci ad occhi chiusi negli spazi infiniti, vedremo immagini ingrandirsi, un progredire di immagini, sentiremo noi stessi distenderci, dilatarci, espanderci e sprofondare in una crescente solitudine. Ci sentiremo liberati dalla pesantezza, in una solitudine assoluta, ma con un immenso orizzonte. E se abbandoniamo lo spazio naturale visibile, i tratti della natura troppo immaginati da altri, guadagniamo una ulteriore distensione dell’essere intimo.

Assecondiamo questo essere altrove, proprio del sognare in solitudine. Evochiamo le semplici immagini della pianura, e la pianura come parola, oltre che come immagine naturale. Allora, scopriremo, rispetto a questo mondo semplificato ed uniforme, diverse sensibilità o nature delle persone: potremo scoprire che troppo spazio ci soffoca, molto più di quanto ci accade se non ne abbiamo abbastanza: la prigione possiamo trovarla all’esterno. E ciò può riguardare non solo la vertigine degli spazi esterni, ma anche l’immensità interiore.

Altri potranno provare che la pianura ci ingrandisce, espande, tranquillizza, in un sentimento di dominio, oppure che la pianura, a causa dell’eccesso di spazio e di libertà, ci disperde, ci porta sempre altrove e ci rende inquieti. Tra questi due poli potremmo cogliere tante sfumature, sensibilità e nature.

Oppure, ricorrendo sempre a realtà forti e stabili, naturali, che sono realtà psichiche, potremmo proporre immagini del deserto, l’immenso orizzonte delle sabbie, i fiumi morti, il duro sole. Potremmo vedere come il deserto è vissuto, nell’apparente contraddizione tra la concentrazione del dentro e l’errare. L’immensità del deserto, mentre ci libera dai legami ordinari del tempo e dello spazio, invece di disperderci, potremmo ritrovarla dentro di noi, in profondità. Potremmo così scoprire una concentrazione dell’errare, la connessione dello spazio del deserto con la profondità dell’intimità, la corrispondenza dell’immensità dello spazio del mondo e la profondità dello spazio interiore. Potremmo, infine, ritrovare, in questi spazi, quella immensità interiore che tanto caratterizza il sognare in solitudine.

Comprenderemo allora che il deserto, la pianura sono al tempo stesso spettacoli della natura e realtà psichiche. Il deserto e la natura sono in noi. Sono cosmicità interiorizzate, immaginando un mondo tranquillo, nella rasserenante natura.

L’uomo può conoscere la calma ed il riposo, una meravigliosa serenità:“La solitudine in questo paesaggio paradisiaco è un balsamo prezioso per il mio cuore e la giovane stagione riempie di calore il mio cuore che troppo spesso rabbrividisce. Ogni albero, ogni siepe è un mazzo di fiori e vorrei diventare un maggiolino per volare in mezzo a questo mare di profumi e cogliervi il mio nutrimento (…) Una meravigliosa serenità, simile a questo dolce mattino primaverile, mi è scesa nell’anima, ed io ne godo con tutto il cuore” I dolori del giovane Werther, Wolfgang Goethe. Il paesaggio, il mattino primaverile, ogni albero, l’universo e il cielo riposano interamente nell’anima del giovane Werther.

Ma nel mondo evocato, nel mondo che si immagina, gli spettacoli della natura possono avere effetti inquietanti. Per restituire loro il carattere di riposo attivo, occorre un’immagine nuova, un’immagine inattesa, un’immagine cosmica toccata dalla poesia. Attraverso la grazia dell’immagine poetica l’anima, seppur straziata dall’angoscia, trova la tranquillità cosmica: la tranquillità è la condizione d’animo sia del mondo che di colui che sogna. Insieme, sono in uno stato di grazia.

I poeti ci trasmettono il loro stato di grazia, il legame che unisce il mondo a chi sogna, il sognatore e il suo mondo:

L’estasi è questa. E’ lo stato
di grazia.
Scende nel cuore cui strazia
l’angoscia, e beato
le fa dei più cari pensieri
che mai serenino ciglio d’uomo,
se in eremo o a prua siede,
o così, su la sponda d’un solitario giaciglio,
a ingigantir la gioconda
anima sua.

L’intermezzo de la prigione, Umberto Saba

 

Che sogno benefico sentirsi beati dei più cari pensieri!

Per il mistico Meister Eckhart, la solitudine è la migliore e più alta virtù, per la quale l’uomo riesce più intensamente a rendersi simile a Dio:”La solitudine è così vicina al puro nulla che non vi è cosa alcuna tanto sottile da trovare luogo in essa, eccettuato Dio, il quale è così semplice e così sottile che riesce appunto a trovarvi spazio”.

Il nulla, il fare vuoto è la stessa meta del Siddharta di Hermann Hesse:”diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso, non essere più lui, trovare la pace del cuore svuotato, nella spersonalizzazione del pensiero, rimanere aperto al miracolo, questa era la sua meta”.

E’ un farsi vuoto per aprirsi a Dio, per accogliere Dio, “perché Dio entri in me e si faccia uno con me”. E’ la solitudine che non conosce alcun riferimento alle creature, non vuole essere, per nessuno, elemento d’amore o di dolore. Così la Madonna rimase immobile nella sua solitudine. Per questo il Profeta dice:“Voglio tacere ed udire ciò che il Signore e Dio va dicendo in me” (Sal, 84, 9).

Quest’uomo del tutto in solitudine diviene morto al mondo, perché niente più l’attira. E’ la solitudine immobile, l’assoluto riposo. “Tacendo Siddharta restava in piedi sotto il sole a picco, ardendo di dolore, ardendo di sete, finchè non sentisse né dolore né sete. Tacendo stava in piedi sotto la pioggia: l’acqua gli cadeva dai capelli sulle spalle gelate, sui fianchi e sulle gambe gelate, e il penitente restava in piedi, finchè spalle e gambe non fossero più gelate, ma tacessero e stessero chete. Tacendo egli s’accoccolava sul giaciglio di spine, e dalla pelle riarsa gocciolava il sangue, il marcio gemeva nelle piaghe, e Siddharta rimaneva rigido, immobile, finchè più nulla pungesse, finchè più nulla bruciasse”. Siddharta, Hermann Hesse.

Ben diverso è “essere per il mondo”. E’ l’essere dell’infanzia cosmica e solitaria. La cosmicità dell’infanzia dell’umanità e del mondo rimane in noi, riappare nelle nostre fantasie solitarie. E’ l’aspetto “creativo-dinamico-unificatore” delle immagini poetiche, particolarmente salutare, perché permette all’uomo di uscire dalla sua contingenza, di “cosmicizzarsi”, di arricchire-ampliare-dare significato alla propria esistenza.

”L’uomo non sente più di essere un frammento impermeabile, è invece un Cosmo vivo, aperto a tutti gli altri cosmi vivi che lo circondano. Le esperienze macrocosmiche non sono più esterne-estranee per lui, ma al contrario lo guidano verso sé stesso, gli rivelano la propria esistenza e il proprio destino” Trattato di storia delle religioni, Mircea Eliade.

Il giovane Werther direbbe: ”Rientro in me stesso, e trovo un mondo!”

San Francesco d’Assisi, campione assoluto della cosmicità, della fratellanza e delle comunicazione col mondo, spesso ha bisogno del silenzio, di ritirarsi in solitudine davanti al Signore. E quella di Francesco è una solitudine che abiterà pienamente la solitudine monastica di Santa Chiara.

E’il bisogno spirituale dell’uomo di stare solo e indifeso davanti a Dio:

Ma, senza timore, quando deve, rimane solo
l’uomo davanti a Dio, difeso dal suo candore
e non abbisogna di armi né di astuzie,
finchè Dio l’aiuta, mancandogli.

Vocazione del poeta, Friedric Holderlin

 

Da questa semplicità spirituale si generano immagini cosmiche che appartengono all’anima solitaria, all’anima principio di ogni solitudine. Sono stati d’animo che ci danno una certa solidità, tranquillità, ci aiutano a sfuggire al tempo che scorre. L’anima si riposa.

E’ nel ricordo di questa solitudine cosmica che dobbiamo trovare il nucleo di infanzia, che rimane al centro della psiche umana. Le solitudini del bimbo, le nostre solitudini infantili vanno scoperte, anche se ciò spesso accade soltanto nell’ultimo quarto di vita.

Si è soli, proprio soli, profondamente soli, soltanto nell’infanzia meravigliosa reinventata, quando si è liberi di pensare anche al mondo, liberi di vedere quei grandi fenomeni, che se non si è soli si vedono mai: la luna, il sole che tramonta, il fumo che sale da un tetto …

Queste immagini arcaiche fanno bene.

Affidiamo i nostri sogni all’immagine dannunziana dello sguardo dell’animale che trema, allo sguardo di una lepre che non guarda niente di particolare, contempla, guarda il mondo e proietta una pace sull’universo.

“Avete mai visto, al mattino, una lepre saltare fuori dai solchi freschi aperti dall’aratro, correre per qualche istante sulla brina argentata e poi arrestarsi nel silenzio, sedersi sulle zampe posteriori, drizzare le orecchie e guardare l’orizzonte? Il suo sguardo sembra pacificare l’Universo. La lepre immobile che, in un tregua della sua perpetua inquietudine, contempla la campagna fumante. Non si potrebbe immaginare un più sicuro indizio di pace profonda nei dintorni. In quel momento è un animale sacro che bisogna adorare” Il fuoco, Gabriele D’Annunzio.

Facciamo silenzio. Fidiamoci di queste immagini. Interrompiamo per un istante le nostre perpetue paure, e andiamo a collocarci con la lepre nella pace del mondo. Immaginiamo gli occhi così belli, grandi, tranquilli, acquatici dell’animale, con tutto il cielo che vi si specchia.

Il valore assoluto e la magia di questa scena stanno nel momento e nello spazio di silenzio e pace.

Perché si diano questi momenti felici, occorre saper attendere, in silenzio e con fiducia, in un angolo, nel luogo del silenzio interiore, nel quale immergersi. Noi tutti conosciamo questo spazio del silenzio che ci fa bene, che un balsamo per l’anima.

Le parole dei poeti e dei santi possono essere silenziose e produrre silenzio.

Su tutte le vette
regna la calma,
tra le cime degli alberi
non avverti
spirare un alito;
nel bosco gli uccellini stanno silenziosi.
Aspetta un poco! Presto
anche tu avrai riposo.

Un altro (canto notturno del viandante), Johann Wolfgang von Goethe

 

Ascoltando queste parole, dentro di noi si fa silenzio. Esse ci tranquillizzano. Avvertiamo l’effetto benefico del silenzio.

Ma non basta tacere. Non si chiede un atto di volontà, poiché il silenzio non viene da noi. Occorre piuttosto porsi in attesa di un dono, in solitudine e in ascolto, con fiducia nella natura, nella nostra natura.

“Con viso che, tacendo, disse: Taci”

Purgatorio XXI, Dante

 

Forse, almeno una volta, tutto muto.
E il casuale e il vago
tacesse, con le risa da vicino,
e il rumore dei sensi
non disturbasse tanto la mia veglia – :

allora, nel molteplice pensiero,
pensarti fino al termine potrei
e (il tempo di un sorriso) possederti,
per donare te alla vita
come un ringraziamento.

Il libro d’oro, Raimer Maria Rilke

Sono parole che fanno silenzio dentro di noi. Sono parole che trasmettono il silenzio da cui provengono. Sono momenti che solo la profondità assoluta del silenzio può donarci. E se ci lasciamo catturare, nulla più di accidentale e approssimativo ci distrae, siamo totalmente vigili.

E’ Dio che affiora a noi nel silenzio. Riceviamo in dono pensieri e immagini che provengono da Dio. E quando facciamo questa esperienza del silenzio, siamo in grado di donarla alla vita intera, ad ogni essere vivente, ad ogni uomo.

“In ogni cosa io cerco riposo” Sir, 24, 7. In nessun luogo c’è piena quiete al di fuori del cuore in solitudine.

 

Come non pensare alle immagini del Passero solitario di Giacomo Leopardi: lasciamoci prendere dalla solitudine cosmica leopardiana, dal suo essere vigile con tutti i sensi, pensoso e immaginoso: soltanto da questa condizione dello spirito si può vedere nell’aria, nel passero, nella natura, nella gente, felicità e gioia.

Ascoltiamo queste immagini tutte sonore, cantiamo questi versi, dispieghiamo il canto alle visioni aeree, seguiamo il dolce e vivo montaggio di immagini e di suoni, ora per concordanza ora per contrasto. Viviamo insieme il presente, nel più bel fior della vita, e il probabile rimpianto del passato.

D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Canti, e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? Che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Il passero solitario, Giacomo Leopardi

Accogliamo questo darsi della creazione allo spirito poetico che è in noi, viviamo questa partecipazione alla natura, con domande esistenziali ed aperte.

Mentre Leopardi contempla il finire della giornata nell’umanità, ecco un’immagine di risveglio di san Juan de la Cruz, dal suo Cantico spirituale, nella quale gli occhi si aprono al mattino con l’illuminazione inattesa dell’intelletto: “dopo un lungo sonno tranquillo, mi destai ed ero simile ad un passero solitario e aperti gli occhi del mio intelletto mi ritrovai sopra tutte le intelligenze naturali, solitario, senza di esse, sul tetto, al di sopra di tutte le cose di quaggiù”. In questo stato di contemplazione, san Juan vede nello spirito le seguenti proprietà del passero solitario, sono similitudini ricche di stimoli per la nostra immaginazione: porsi nei luoghi più alti adatti per un altissima contemplazione; tenere il becco sempre rivolto verso il luogo da dove viene il vento, così lo spirito volge il becco verso lo spirito d’amore che è Dio; starsene solo così lo spirito nella contemplazione sta in solitudine; cantare molto soavemente e così soavemente lo spirito canta a Dio; non ha un colore preciso e così è lo spirito perfetto.

Ben altro canto è quello del Passero solitario di Giovanni Pascoli, immaginiamo le tre sole note in pace emesse dallo spirito solitario, nell’immenso silenzio dell’ermo santuario.

Tu nella torre avita,
passero solitario,
tenti la tua tastiera,
come nel santuario
monaca prigioniera
l’organo, a fior di dita;

che pallida, fugace,
stupì tre note, chiuse
nell’organo, tre sole,
in un istante effuse,
tre come tre parole
ch’ella ha sepolte, in pace.

Da un ermo santuario
che sa di morto incenso
nelle grandi arche vuote,
di tra un silenzio immenso
mandi le tue tre note,
spirito solitario.

Passero solitario, Giovanni Pascoli