La buona e la cattiva digestione

 

La buona e la cattiva digestione

Nell’immaginare il cibo e il liquido che scendono nel corpo, regna l’immagine felice di tutto ciò che scorre, dell’acqua corrente, come bevanda fondamentale, dell’acqua concepita come elemento nutritivo, come elemento che si digerisce in modo ovvio. E’ l’immagine potente dell’acqua corrente naturale che nutre come il latte, anzi è un super-latte, il latte di madre natura, della madre delle madri.

Nelle dialettiche dell’immaginazione dinamica e materiale, c’è anche un’acqua stagnante, o lenta, pigra, pesante.

Ma ogni liquido che beviamo è prima di tutto immagine del latte, del latte materno. L’elemento completo scorre tiepido e fecondo. Prima di essere il nutrimento primordiale, il latte è la sostanza bianca e calda, calmante per eccellenza, che ricorda il grembo materno, il dolce abbandono del bambino sazio, del bambino che s’addormenta sul seno della nutrice.

Sarà allora molto limitante spiegare la digestione con la chimica e l’acqua e il latte su un principio eminentemente nutritivo. Al tempo stesso, le immagini metaforiche che associamo sono legate alle qualità della materia dell’acqua e del latte. Soltanto l’essere limpida e fresca dell’acqua può portare il valore dell’energia e della giovinezza. Il sogno delle acque della giovinezza si fonda sulla sostanza fresca e giovane qual è l’acqua.

Nel mangiare ritroviamo le dialettiche dell’immaginazione dinamica e materiale, quali la verticalità verso l’alto e verso il basso, le bipolarità del bene e del male, del leggero e del pesante. E’ da queste dialettiche che riconosciamo una buona o cattiva digestione. Come tutte le cose, anche il cibo ha una discesa e una salita, tutto scende e sale, tutto è pesante o leggero. Così si immagina la minaccia dei cibi pesanti e delle intemperie a fronte del calore digerente dello stomaco che va tenuto avvolgente, che va preservato, posseduto. Assistiamo alla classificazione degli alimenti in base al loro calore immanente, abbiamo evidenza che si tratta di valori psichici ed esistenziali. C’è un mito della digestione. Quando pensiamo che una cattiva digestione dipenda dall’aver mangiato cibi pesanti, cos’è che è pesante? Al peso dell’alimento va associato il peso di un passato gravoso: pesano le preoccupazioni che non fanno vedere un futuro felice. A pesare è un’anima pesante. Il che non vuol dire che la scelta del cibo sia indifferente, noi ci realizziamo anche attraverso queste scelte, ma è necessario che le qualità del cibo scelto contribuiscano ad invitare ad immagini di leggerezza, con sincerità, ad aspirare verso l’alto, a sostituire pesanti preoccupazioni, a spazzar via tutto ciò che ostacola una buona discesa e una buona digestione. La buona digestione non va soltanto conquistata, deve avere anche una prospettiva futura. Una volta messo a riposo l’approccio utilitaristico, nutrizionale e chimico meccanicistico, si tratta di imparare a partecipare totalmente al mangiare, al masticare, all’assaporare, al digerire, sentendo il cibo trasformarsi mentre scende fin nelle feci, in modo da superare tutto il nostro essere pesante, in vista di una possibile futura condizione di leggerezza. Mangiamo e godiamo per riprendere la nostra ricerca (continua ed infinita) di realizzarci.

Siamo nel mondo dei valori e delle possibilità. Che la buona digestione richieda il calore non è un fatto fisiologico. Il calorismo mette in gioco il desiderio di una sostanza calda, dolce, tiepida, avviluppante, protettiva, penetrante e profonda. Anche per il calore occorre immaginare in profondità e allora sentiremo le immagini acquistare calore. Immaginiamo con le viscere, per cui abbiamo bisogno del benessere dato dal calore, mentre il freddo blocca non solo i pensieri ma anche i sogni. Non c’è immaginario profondo del freddo.

Allora l’incubo o il non riuscire a dormire non vanno semplicisticamente dovuti a un cibo pesante o al reflusso gastrico. Non è questione di pesantezza del cibo, ma di cattiva digestione. Se sappiamo digerire e proviamo piacere a farlo, non soffriamo di tale pesantezza. Per fortuna, ci sono stomachi sazi che conoscono sogni tranquilli.

La coscienza esistenziale ci dice che se non digeriamo non è perché il cibo è pesante, ma perché siamo angosciati dal vedere difficoltà, perché non abbiamo fiducia a procedere e ad assimilare. Non abbiamo la pazienza e la calma richieste per scivolare, fluire, assimilare. Forse abbiamo inghiottito invece di masticare ed assaporare, ed ora abbiamo paura di essere inghiottiti dall’abisso.

Liberarsi dalle pesanti e lente digestioni comporta liberarsi dei propri rancori, del proprio passato, comporta governare i propri istinti e le proprie passioni.

Immagina. Soffro, ho dolore, ho mal di stomaco. E’ un bruciore forte. Non è il mio stomaco che soffre, ma è la mia esistenza che si contrae. Tutto diventa urgente e pressante, le cose, i ritmi, gli impegni sono tali da sentirmi impotente a gestirli, il mio dolore “fa corpo” con questo incalzare. Non è un organo del corpo che soffre, ma è il mio rapporto col mondo che si è contratto.

Sopporto il dolore ma non l’accetto. Se lo accettassi significherebbe chiudersi nel corpo – e chiudersi alle relazioni con il mondo. Significherebbe arretrare la propria presenza e far diventare il corpo un ostacolo piuttosto che un mezzo per relazionarsi al mondo. Prestare attenzione e ascolto ansioso e inquieto al proprio corpo sofferente allontana da ogni altro scopo, progetto: nel dolore, il mio corpo diventa per me il mondo. Il dolore sradica la mia presenza dal mondo, per radicarla nel mio corpo.

Accanto a queste immaginazioni che aiutano ad avere coscienza esistenziale della sofferenza, abbiamo immagini primarie che hanno il valore di benessere dolce, caldo, sicuro. Sono animate dalle forze di avvolgimento e fanno godere della grande sicurezza nel futuro di un ventre. E’ il sogno della migliore digestione e assimilazione.

Immagina. Abbiamo fatto una lenta e dolce discesa viscerale, accolti nel ventre materno. Ora possiamo sognare il più grande riposo. Sappiamo che per dormire in modo confortevole, ben riparati, ben protetti, al caldo, non esiste rifugio migliore del seno materno. Sappiamo che il più piccolo riparo richiama il sogno del riparo ideale, che la casa piccola è migliore della casa grande, per dormire e sognare bene (Parva domus, magna quies), ma la cavità perfetta del ventre materno lo è ancora di più e lo è perché è quel ventre che ci protegge e ci dà nutrimento e fiducia di un felice avvenire.

Non abbiamo un corpo, siamo il nostro corpo. Quando ci sentiamo in agitazione, dietro il brontolio dell’intestino, l’agitazione è immagine del lavorio disordinato di sentimenti e pensieri ed è immagine di molteplicità intima di corpi minuscoli che si agitano. Seguiamo questa immaginazione. In profondità, più i corpi sono piccoli più li immaginiamo attivi e in tensione. La profondità è tutta in fermentazione stomacale ed intestinale, con facili passaggi dall’agitazione al conflitto. E’ un’unione tra l’agitazione delle passioni, la turbolenza delle emozioni e le agitazioni intestine. Sono immagini del movimento formicolante che ora è in unione ora in contesa.

Sono semplici immagini del movimento formicolante che ora è in unione ora in contesa, ora in attività e calore buono ora in agitazione e intimità contesa. L’espressione “Ho l’intestino in disordine” nasce da un’istanza digestiva conflittuale. Il riposo è negato, si afferma l’intima agitazione. E’ una fermentazione di ostilità. Da questa consapevolezza e immaginazione, possiamo ritrovare una facile adesione alla calma e ai travagli intestinali.

Tali dinamiche, dalle ultime scoperte scientifiche sull’apparato digerente, trovano espressione nel “microbiota umano”, la microflora intestinale che si estende in tutta la parte inferiore dell’addome, e in tutta la rete neuronale contenuta all’interno dell’intestino. Il microbiota è peculiare di ciascun individuo ed è capace di rinnovarsi nel corso della vita in base a diversi fattori. Nell’intestino è in atto un’intensa attività stimolante e di difesa dell’organismo da sostanze estranee ed aggressive, nel tentativo di mantenere in equilibrio la flora intestinale. Per indicare la stretta correlazione tra questa attività della flora intestinale e gli stati mentali ed emozionali si parla dell’intestino come un “secondo cervello”, una sorta di cervello viscerale ed emotivo, interagente col sistema nervoso centrale e in grado di ricevere e trasmettere segnali e stimoli reagendo ad ogni tipo di agente esterno, sensazione, stato d’animo, emozione e stress.

Questo formicolare non ci deve inquietare, in quanto ci appartiene e appartiene al mondo: dal formaggio abitato alle stelle che popolano la notte immensa, tutto si agita, tutto formicola. L’agitazione intestina e la fermentazione sono vita e immaginazione.

Ci agitiamo e sogniamo. Ogni agitazione intestinale, ogni turbamento, ogni angoscia del labirinto, ogni difficoltà a procedere trova una dimensione inconscia nel sogno e un’espressione organica, intestinale, gastrica. Più immagini concorrono in un’unica immagine ed esperienza umana di fronte ad una situazione tipica.

Ci sono immagini primarie che non conoscono l’agitazione intestinale. Immagina. Una volta compiuta la lenta e dolce discesa viscerale, inghiottiti nel ventre materno, possiamo sognare il più grande riposo.

Abbiamo bisogno di queste immagini primarie, hanno il valore di benessere dolce, caldo, sicuro. Sono animate dalle forze di avvolgimento e fanno godere della grande sicurezza di un ventre.

Con queste immagini non s’intende cercare immagini di riposo senza attività, fervore, appunto agitazione. La pace va cercata in cammino, in quanto nell’uomo, nel corpo e nell’anima, tutto è cammino, tutto è movimento.

Immaginiamo il comportamento dei nostri condotti, con le loro stratificazioni di mucose e tessuti muscolari, scopriremo che tutta una fluidodinamica interna si offre a darci prova delle nostre immagini psicofisiche di inghiottimenti, masticazioni, digestioni, assimilazioni intestinali e inconsce, percorsi intestinali labirintici, riflussi esofagei, vomiti.

Ma attenzione, l’immaginazione dinamica incontra una dinamica fisiologica da cui non va disunita. Seguiamo questa associazione con attenzione, così ci percepiremo fino in fondo e si apriranno i misteri della profondità.

Camminare a fatica, questo semplice elemento del cammino difficile è la sintesi delle nostre sofferenze. In un sogno significa essere smarrito e vivere quindi la sofferenza dell’essere smarrito, nell’intestino è la materia che vi si muove evocando le immagini labirintiche di quando non riusciamo a trovare il cammino ad un angolo o ad un incrocio. Sono immagini del perdersi: alla minima complicazione l’essere umano può ritrovarsi in questa situazione. E’ l’essere umano, siamo una materia labirintica, la materia dell’essere smarrito o dell’essere esitante.

Conviviamo e familiarizziamo con queste immagini materiali e con questi incubi, siamo tutto condotti, budelli tortuosi. La bocca dello stomaco suscita i sogni delle fessure orizzontali, pozzi, botole, dalle quali si aprono gole, scale, sotterranei, viscere: il sognatore viene inghiottito dall’abisso, come in una discesa agli inferi.

Aderiamo alla natura dinamica labirintica della corporeità. Il nostro essere è questo corpo labirintico. Così comprendiamo meglio il malessere umano ed esistenziale dell’incubo labirintico, ma non l’accettiamo, perché siamo presi dal desiderio di dare uno sbocco, di aprirci un cammino fuori del labirinto. E’ un desiderio che fa parte del nostro essere nel mondo e trova facilmente le sue immagini. Mi rendo conto che la fatica a procedere, la sofferenza, il dolore della materia labirintica rattrappisce ogni prospettiva, ci fa essere solo corpo. Devo allora aprire la mia esistenza e il mio corpo ad un avvenire, a delle prospettive. Scopro che la bocca e l’ano non sono solo orifizi del corpo, ma anche le vie di apertura al mondo, vie consentite o interdette, e comunque percorse dal piacere. Per aprirsi uno sbocco, un avvenire occorre immaginare un cibo e immagini che procurino fluidità, un dolce e felice scorrere verso l’esterno.

Ora ci è familiare immaginare il cammino difficile del cibo nel percorso gastrointestinale fatto di dolorose o difficili distensioni, contrazioni, restringimenti, flessioni, stiramenti, tensioni, viscosità che richiedono lentezza. La sensazione acida che accompagna il reflusso esofageo ci inquieta. Questa risalita ci soffoca. Il cibo esita nel mezzo di un unico cammino possibile, diventa materia esitante. Temiamo di essere soffocati. Sembra che viviamo la sintesi tra l’angoscia di un passato di sofferenza e l’ansietà per un avvenire di infelicità. Siamo presi tra un passato bloccato e un avvenire ostruito.

Accogliamo queste emozioni con coscienza esistenziale ed immaginifica. Se non riusciamo subito ad inghiottire, a mandare facilmente nello stomaco, diventiamo un po’ ruminanti, con una ruminazione costruttiva, come la mucca di un racconto di Grimm rumina il suo Giona.

Non drammatizziamo più di tanto, siamo coscienti di essere di fronte all’immagine sintetica del nostro essere, di un cammino complicato ed ostacolato e dell’immagine concreta del riflusso esofageo di un cibo che deve essere inghiottito. Bisogna spingere, mangiando e bevendo ancora, il cibo che ostruisce l’esofago. Lo sbocco riesce, riprendo fiato.

Desoille, lo psicanalista del sogno guidato ad occhi aperti, per stimolare l’alleggerimento e il superamento delle resistenze, suggerisce al soggetto di immaginare se stesso mentre percorre un dolce pendio. Il percorso è molto uniforme, senza ostacoli, né abissi. E’ un camminare ritmato ed in salita. Ci si aiuta immaginando che con un piede si lascia il passato mentre l’altro va verso il futuro.

Lasciamoci andare agli stimoli delle buone e belle immagini. Si può sentire un intestino duro, rigonfio di bolle che pungono, immaginiamo allora che vi scorra un’acqua dolce e calda e che tutto sbocchi nel mare della tranquillità.

Quando invece sentiamo e viviamo l’immagine dell’intestino molle, dalle pareti villose e morbide, di un labirinto che soffoca, immaginiamo che scorra una corrente di essere viventi dal colore biancastro che finisce di aprirsi al bagliore di un’alba.

Immagina. Seguiamo i labirinti dei percorsi interiori intestinali attraverso l’immagine felice di tutto ciò che scorre. Affidiamoci all’elemento acquatico. La discesa deve essere attenta, senza traumi, né vertigini, senza dramma. Deve liberarci dal peso e dall’oscurità della carne. Immaginiamo l’acqua corrente che scendendo addolcisce, fluidifica, dinamizza, dà energia e trasforma. E’ la bevanda fondamentale, è l’elemento nutritivo che si digerisce in modo ovvio. Immagina: l’elemento nutritivo completo scorre tiepido e fecondo, è viatico della vita. L’acqua scorre giocosa, attraversa pareti sottili, cioè elastiche e lisce, tali da dare le gioie dell’avvolgimento facile e tiepido. E’ l’acqua pura e purificatrice a scorrere: supera e porta con sé ogni ostacolo, tutto quello che incontra diventa sostanza acquosa e pastosa, tutto si scioglie, viene trasformato e trasportato dall’acqua. Tutto viene assimilato e rigenerato dall’acqua purificatrice.

E’ un’acqua corrente calda penetrante, portatrice del benessere del calore in profondità. Penetra col suo calore intimo là dove non arriva l’occhio, dove non penetra la mano. Con la discesa si diffonde una comunione interiore, una simpatia termica.

La nostra coscienza esistenziale ci dice che in questo labirinto preme una volontà di immaginazione che cerca di aprirsi un cammino, una via d’uscita, come quando nella vita ci troviamo in un mondo pieno di ostacoli. Occorre saper esserci nel labirinto, per vedere una via d’uscita e per desiderare la gioia che c’è dopo il dolore.

L’intestino d’altronde è un labirinto dinamico, in continuo movimento ed evoluzioni: siamo presi da dolorosi contorcimenti, stiramenti, torsioni. Sembra che si succedano stati inesprimibili e inauditi della coscienza e dell’inconscio che risiedono e si esprimono nel corpo: stati di tensione, come se tutto si gonfiasse ed esercitasse una compressione e poi si distendesse.

“Se dovessimo disegnare un’architettura simile alla nostra anima (…) bisognerebbe concepirla a immagine del Labirinto dalle pareti molli, tra le quali cammina, scivola il sognatore. E da un sogno all’altro il labirinto cambia” Aurora, F. Nietzsche.

Ma per poter proporre queste immagini di fluidità corrente, il soggetto deve prima spazzar via, come suggerisce Desoille, le proprie preoccupazioni, tutto ciò che rende la propria anima pesante, tutto ciò che è di ostacolo all’avvenire della persona, attraverso i gesti ben ordinati dello scopino o dello straccivendolo che siano veramente sentiti e vissuti, immaginati davvero. Ma attenzione, questo spazzar via non è una liberazione, ma una ri-assunzione del proprio passato, secondo modalità nuove, ed è grazie a questa ri-assunzione che possiamo dischiudere un nuovo futuro alla nostra vita.

Per prospettarci un avvenire nel mangiare, liberiamoci dai sogni di pesantezza, e da ciò che appartiene ad un essere acquatico o terrestre ed intimo. Facciamo sogni aerei, l’aria è la sostanza stessa della nostra libertà. Bachelard, nel caratterizzare l’essere, osserva: la gioia terrestre è ricchezza e pesantezza, la gioia acquatica è mollezza e riposo, la gioia aerea è libertà. Aggiungiamo che l’aria pura è la coscienza dell’istante libero, di un istante che prelude ad un avvenire. E’ un’impressione di giovinezza e di novità. L’immaginazione aerea ci distacca dal passato. L’assimilazione del cibo deve essere aerea, come respirare aria pura.

Nell’aria c’è una promessa
da bocche ignote un soffio giunge verso me
– la grande frescura viene …

Ditirambi di Dioniso, Friedrich Nietzsche

Questa frescura è la vera qualità tonificante dell’aria, la qualità che dà la gioia di respirare.

E’ questa la gioia aerea che dobbiamo avere nel mangiare assimilando la leggerezza aerea. Per raggiungere questa immaginazione e condizione esistenziale, valutiamo la pesantezza del cibo e della digestione, chiediamoci qual è il peso che ci impedisce di essere leggeri, aerei. Pesiamoci sulla bilancia che ci dirà non il nostro peso ma il nostro avvenire aereo.

Il nostro essere da terreno deve diventare aereo. Questa trasformazione renderà leggeri tutti i cibi, il nostro stesso corpo, tutto ciò che scende e sale dentro di noi diventerà leggero.

La leggerezza aerea, tuttavia, necessita di un lungo apprendistato. Occorre prima liberarsi del nostro essere pesante. Occorre apprendere l’arte di dimenticare. Occorre buttare lontano da noi tutti i nostri pesi, tutti i nostri rimpianti, tutti i nostri rimorsi, tutti i nostri rancori, tutto ciò che dentro di noi guarda al passato.

Per far questo, dobbiamo percepirci fino in fondo nel nostro labirinto intestinale, si deve penetrare nel profondo del nostro corpo e della nostra anima, per dare con l’assimilazione alimentare uno slancio continuo alla vita e all’avvenire. Occorre immaginare il mangiare, il masticare, l’assaporare, il digerire e scendere fino in fondo, partecipando al defecare. Soltanto in questo scendere in profondità, fin nelle feci, possiamo liberarci del nostro essere pesante, del nostro essere di carne e di terra, in vista di una possibile condizione futura di leggerezza e di libertà. E’ in gioco una trasformazione dell’essere. Si tratta di conquistare una leggerezza aerea e canterina: l’avvenire dell’essere, dopo aver cancellato tutti gli esseri del passato.

Affidiamoci anche alla forza dell’immaginazione, affidiamo alle immagini aeree di leggerezza che ci donano i poeti, alle immagini ispirate della poesia espansiva. Queste immagini ci aiutano a non cercare la soddisfazione forzata, ogni sazietà, per aprirci possibili avveniri. Ci danno coscienza di cosa chiediamo al cibo – e delle nostre paure.

Le immagini della leggerezza aerea possono essere evocate dalle parole. La parola è essa stessa un fluido aereo che smuove il nostro essere fluido, quando il nostro essere abbia ultimato la sua parte di terra. Nel mangiare c’è un essere terreno ed un essere acquatico e un essere aereo; la poesia suscita modi di essere. Con la parola poetica le immagini defluiscono dalla voce sussurrante e insinuante.

Diventiamo persone d’aria.