La leggerezza: salire, salire, salire

 

La leggerezza: salire, salire, salire

Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.

La Divina Commedia, Paradiso, Canto 29, Dante

Il regno di Lucifero è costretto da tutti i pesi del mondo, la leggerezza è la libertà da tali pesi.

Nella visione dantesca delle tenebre dell’inferno e della pura luce del paradiso, si trovano ad avere opposti valori la verticalità verso il basso e la verticalità verso l’alto, il peso terrestre e la leggerezza del cielo. E con Dante forse diremmo fa bene sognare verso l’alto, tesi verso un al di là. Fa bene nutrire il nostro istinto di verticalità verso l’alto, di immagini verticalizzanti: le fantasie verticalizzanti ci rendono leggeri, lievi, eterei.

Rifacendosi alle immagini arcaiche e sempre vive, diremo che fa bene meditare sulla verticalità del fuoco, della fiamma. La fiamma solitaria di una candela che, da sola, corre dritta verso il suo destino di verticalità, può essere, per il sognatore che medita, una guida verso le altezze del sogno ad occhi aperti.

Immaginando un universo aurorale, un universo che porta sulle sue vette la luce ci sentiamo sollecitati alla leggerezza, al sogno di volo. Sono condizioni dello spirito e immagini felici che alleviano la persona appesantita dalle preoccupazioni, dagli errori, dall’angoscia esistenziale.

Sono immagini che sollecitano all’ascensione immaginaria, per lanciare e rilanciare lo psichismo ascendente. E questo psichismo è benefico solo se sale in alto, sempre più in alto, se l’essere mantiene la tensione verso il mondo della pura luce, come nel Paradiso dantesco: ogni cosa che sale ha del divino!

Per sentirsi veramente leggeri e rinascere, per liberarsi dei nostri pesi e volare, volare, occorre lasciarsi rapire dal canto e dalla musica, e quando la musica è della natura e il canto è degli uccelli saremo sollevati e saliremo ancora di più. Il canto degli uccelli, la sinfonia della natura possono risvegliare in noi ciò che c’è di più puro e gioioso. Novalis, evocando la verticalità della fiamma, scrive: “Nella fiamma di una candela sono attive tutte le forze della Natura” I discepoli di Sais

Le immagini verticalizzanti della natura ci fanno sognare l’altrove, l’altrove che è al di sopra, e accumulando le immagini di verticalità della natura l’immaginazione spicca il volo per conoscere una trascendenza dell’essere, il divino.

Fiore, fuoco, aria, luce, ogni cosa che sale ha del divino, ogni sogno si dispiega come fiore.

“Quale altra ragione può darsi del fatto che l’eliotropio segua con il suo movimento il movimento del sole e il selenotropio il movimento della luna, facendo così corteo, nella misura del loro potere, alle fiamme del mondo, se non ammettendo delle armonie causali, delle causalità incrociate tra gli esseri della terra e gli esseri del cielo? In verità, ogni cosa prega, secondo il rango che essa occupa nella natura, e canta la lode del capo della serie divina a cui appartiene, lode spirituale, e lode razionale o fisica o sensibile” Nell’Islam iranico, vol. 3 Fedeli d’amore, Henry Corbin. La ragione sarà, citando questo versetto del Corano: “Ogni essere conosce il modo di preghiera e di glorificazione a lui proprio”.

Seguiamo allora le immagini di ascensione leggera, cantata e continua della natura che accompagnano la morte di san Francesco di Assisi:

“Mi sovveniva di Francesco alla Porziuncola e dell’ultimo cantico cantato nell’ombra (…) Tutto il cielo, quando il Serafico si tacque alla soglia d’eternità, tutto il cielo della sera fu pieno d’un coro miracoloso di allodole. Ed ecco, dall’immensa Landa, una melodia sorse e si sparse, una melodia che forse già riempiva tutta l’ombra degli alberi piagati ma che non fu da me udita se non in qual punto. A duna in duna, di selva in selva, di macchia in macchia, la Landa si fece tutta melodiosa, fino all’Oceano. Era un cantico d’ali, un inno di piume e di penne, quale non s’ebbe più vasto il Serafico, (…). Era la sinfonia vegetale di tutta la primavera alata, per Giovanni di San Mauro, per l’interprete di ogni aerea voce. Saliva, saliva senza pause. E a poco a poco, di sotto al salmo silvano, si muoveva una musica fatta di gridi e di strepiti conversi in note armoniose da non so qual virtù della lontananza e della poesia. (…). E i galli chiamavano e rispondevano, dai chiusi di giunco marino di bianco spino, come se il vespro si mutasse in alba, la quiete in risveglio. La morte viene qui celebrata e sublimata dal canto della natura che partecipa al lutto per chi, come Pascoli, l’ha sempre celebrata. Così lo scenario di morte si sublima nelle note dei canti e della musica in cui si riflette l’attività pancalista della volontà. Essa esprime, anche nella contemplazione della morte, la voglia di bello. Ogni contemplazione profonda è necessariamente, naturalmente un inno. La funzione di questo inno è superare il reale, proiettare un mondo sonoro al di là del mondo muto. (…) La poesia, in realtà, non è che la traduzione di una bellezza immobile e muta, è un’azione vera e propria” La contemplazione della morte, Gabriele D’Annunzio.

La morte con le allodole ci offre l’immagine estrema della leggerezza, pura sintesi in una verticale di volo e di canto, corpuscolo invisibile che partecipa ad un’onda di gioia, di gioia cosmica, fino a tacere e a sparire nel cielo. Siamo incantati da questa sinfonia, da questo universo naturale e musicale che sale, sempre sale, come un inno che deriva dalla miracolosa conversione in note armoniose di tutti i gridi e gli strepiti discordanti di una campagna in fermento. Chi è portato ad un’immaginazione aerea sentirà senza esitazione che l’armonia dipende da questo salire, e che essa vivrà senza difficoltà l’unità, al tempo stesso estetica e morale. La continuità dell’emozione estetica e dell’emozione morale, nella forza ascendente, è ancora più piena con la pagina seguente: “Il salmo non aveva fine. Tutto pareva salire, ancora salire, sempre salire, nel rapimento di quel canto. Il ritmo della Resurrezione sollevava la terra. Io non sentivo più i miei ginocchi, né occupavo il mio luogo angusto con la mia persona; ma ero una forza ascendente e molteplice, una sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura”. La contemplazione della morte, Gabriele D’Annunzio. Quale potere di resurrezione e sollievo rivolto al cielo possono mai avere il canto e la musica della natura! Quale ebbrezza ascensionale!

Proviamo ad immaginare questa straordinaria sintesi gioiosa di volo e canto: “Tutte le campagne sono coperte di piccoli fiori selvaggi che muoiono; e il canto delle allodole riempie tutto il cielo. Ah che meraviglia! Non avevo mai udito un canto così impetuoso. Migliaia di allodole, una moltitudine senza numero … balzavano da ogni parte si scagliavano verso il cielo con la veemenza delle fionde, parevano folli, si perdevano nella luce senza più riapparire, quasi le consumasse il canto o le divorasse il sole … una è caduta all’improvviso ai piedi del mio cavallo, pesante come una pietra, ed è rimasta là, morta, fulminata dalla sua ebbrezza per aver cantato con troppa gioia”. La città morta, Gabriele D’Annunzio.

Il mondo e la realtà vengono polverizzati, perdono compattezza e pesantezza. D’Annunzio è il poeta di questa leggerezza esplosiva.

Mentre siamo presi da quest’idea dannunziana della leggerezza, con fughe nel soprannaturale, troviamo che l’allodola tra tutti gli uccelli è tanto cara a poeti e santi, che amano fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile. Per i poeti della leggerezza, l’alleggerimento del linguaggio si ha nel canto, quando le parole si liberano del peso dei significati, privilegiando i significanti e la musicalità, come un armonia senza peso, di rarefatta consistenza.

Pensiamo al canto degli uccelli e condividiamo con Passeroni l’esaltazione del benessere, l’“allegrezza” che ci dà il canto degli uccelli, “che ci fa obbliar le cure alte e profonde”, più della musica,

Non dico che la musica non sia
un rimedio, un antidoto possente,
per discacciar la malinconia,
massime quando è un musico eccellente:
ma che de gli uccelli il canto e l’armonia
altrui solleva forse più la mente;
e di loro messer Francesco ha detto,
ch’alzan la terra al ciel nostro intelletto.

Sopra i musici, Cicerone, Passeroni

Queste immagini ci portano ancora una volta alle allodole, a quella fusione di volo e canto, che si realizza nel silenzio e nel piacere inesprimibile e compiuto.

Quale allodetta che ‘n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l’imago de la ‘mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell’è diventa.

La Divina Commedia, Paradiso Canto 20, Dante

Tutto ha l’impronta dell’eterno piacere che sazia e tutto è proteso verso questo piacere.

Forse per questo l’allodola è stato sempre l’uccello amato da san Francesco di Assisi, così poveramente vestito, ma così ricco di cuore e di canto, così capace di sradicarsi dalla terra e di annullarsi in una scia e in un canto, nella luce. San Francesco aveva un amore straordinario per gli uccelli, e “fra tutti gli uccelli prediligeva il piccolo volatile chiamato allodola e che in volgare viene detta “allodola cappellaccia”. Diceva di lei: “La sorella allodola ha il cappuccio come i religiosi, ed è un uccello umile, perché va volentieri per la strada in cerca di qualche granellino, e anche se lo trova tra lo sterco, lo trae fuori e lo mangia. Volando, loda il Signore molto soavemente, simile ai buoni religiosi che, guardando dall’alto le cose della terra, vivono sempre rivolti al cielo e sono sempre intenti alla lode di Dio. Il vestito dell’allodola, il suo piumaggio cioè, ha il colore della terra: così offre ai religiosi l’esempio di non avere vesti eleganti e di belle tinte, ma di modesto prezzo e colore somigliante alla terra, che è l’elemento più umile”.

Scopriamo con Francesco che c’è l’allodola della terra e l’allodola del cielo; Jules Renard in Storie naturali afferma:

L’allodola non è un uccello della terra …
Chi potrà dirmi dove canta l’allodola?
(…)
L’allodola vive nel cielo ed è l’unico uccello del cielo
il cui canto giunga fino a noi.

Il canto dell’allodola per Michelet è “gaio, leggero, senza sforzo, gratuito, somiglia alla gioia di uno spirito che voglia consolare la terra”. L’uccello

Se immaginiamo il disegno che traccia nel cielo e il coro del suo canto, siamo presi da immagini dell’ascensione puramente aeree: l’allodola che si innalza, ebbra di luce e di canto, apre lo sconfinato orizzonte e l’infinita altezza dell’aria leggera e pura, invitandoci a guardare lontano e ad elevarci verso l’Altissimo.

Torniamo a godere del sollievo dello spettacolo offerto in occasione della morte di Francesco già evocato da D’Annunzio: “La sera del sabato, dopo i vespri che precedettero la notte in cui Francesco migrò al Signore, una moltitudine di allodole venne sopra al tetto della casa in cui giaceva, e volando adagio a ruota, facevano come un cerchio intorno al tetto e, cantando dolcemente, parevano lodare il Signore”.

Per la stessa scena, Tommaso da Celano ci offre immagini animate da uno straordinario dinamismo: la tensione e l’energia che deriva dall’attrazione della luce e dalla paura del buio, dal gioioso pianto e dalla gioia dolorosa; sono polarizzazioni che si fondono in una felice sintesi di volo e di canto.

“Le allodole, amiche della luce del giorno e paurose delle ombre del crepuscolo, quella sera in cui san Francesco passò dal mondo a Cristo, pur essendo già iniziato il crepuscolo, si posarono sul tetto della casa e a lungo garrirono roteando intorno. Non sappiamo se abbiano voluto a modo loro dimostrare la gioia o la mestizia, cantando. Esse cantavano un gioioso pianto e una gioia dolorosa, quasi piangessero il lutto dei figli o volessero indicare l’entrata del padre nell’eterna gloria” Tommaso da Celano.

Sarà per questo loro porsi in una posizione di confine misteriosa che le allodole spesso vengono associate al momento della morte. Tristan Tzara, in Grano e cruschello, attribuisce all’allodola un destino dopo l’atto finale: “alcuni svolazzi dell’allodola, che prevedono un seguito dopo l’atto finale, sono sempre consigliabili”.

Leonardo da Vinci la immagina profetessa al capezzale di un malato che deve morire.

Per spiegare questa vocazione delle allodole ad ispirare immagini dell’ascensione al cielo come liberazione, si devono considerare gli elementi sostanziali e i valori in gioco. L’allodola del cielo è leggera, invisibile, è lo sradicamento dalla terra e l’ascensione in cielo, accompagnata da un senso di vittoria. Il suo più che un grido di liberazione è un canto di libertà: in ogni nota del suo canto risuona un accento di trascendenza. “L’allodola – dice Michelet in L’uccello – porta al cielo le gioie della terra”.

Queste allodole del cielo ci offrono immagini che superano ogni individualità, dimenticano se stesse, si dissolvono nell’ascensione e nel coro. Sono invisibili individualmente, così da dar vita a sintesi coreografiche e canore, fino a fondersi in un inno che sale, offrendoci una pura immagine spirituale dell’ascensione. L’allodola è l’impronta vera e propria di una sublimazione per eccellenza: “l’allodola smuove – dice L. Wolff – ciò che di più puro sta dentro di noi”.

L’allodola, in questa pura ascensione, sparisce nel cielo, e se improvvisamente si cessa di udirla, pensiamo che deve essere morta e dissolta nell’aria, in quanto non è soggetta alla gravità e non sa cadere sulla terra.

Rispondiamo al richiamo dell’allodola. Nutriamoci delle immagini di leggerezza e liberazione che ispirano le allodole cantate dai poeti e dai santi. Diventiamo aerei, partecipiamo alla vita aerea e al suo mistero. Chiediamoci con P. B. Shelley in A un’allodola:

Ciò che tu sei
non lo sappiamo.
Insegnaci, Spirito o Uccello,
quali dolci pensieri sono i tuoi.
Io non ho una lode d’amore o di vino
da cui fluisse così palpitante un simile celeste rapimento.
(…)
E dunque insegnami almeno la metà
di tutta quella gioia che conosci
dalle mie labbra allora fluirebbe
una follia armoniosa, e finalmente il mondo
ascolterebbe proprio come me
che sono in ascolto della tua.

Lasciamoci rapire dal mistero delle allodole, partecipiamo a questo inno d’amore!

C’è qualcosa di nuovo oggi nel cielo, non è un uccello; lasciamoci prendere dal mistero tutto aereo e sospeso. Leggiamo e respiriamo questi versi. Partecipiamo a questa continua sottrazione di peso.

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico, io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.

Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle querce agita il vento.

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:

un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…

L’aquilone, Giovanni Pascoli

Immaginiamo e dimentichiamoci. Sciogliamoci e togliamo peso. Lasciamoci sostenere da un’aria celestina. Poniamoci altrove, oggi, con Pascoli, a sentire qualcosa di antico apparirci nuovo, in un clima leggero, religioso e misterioso. Respiriamo una dolce aria celestina angelica, d’altro luogo, d’altro mese e d’altra vita. Sciogliamoci, diventiamo aerei, in modo da visitare “le chiese di campagna, ch’erbose hanno le soglie”.

Un’anima meno aerea, per conquistare il cielo, per lanciare la sua stella cometa, per innalzarsi al cielo, deve diventare tutta tensione ed urlo verso il cielo.

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento, ecco piano piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’innalza.
S’innalza; e ruba il filo alla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorire lontano.
S’innalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù, lassù … Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto … chi strilla?

L’aquilone, Giovanni Pascoli

E’ una fuga di immagini in cielo. Tutto tende verso l’alto. I ragazzi si fanno sostenere verso l’alto da ciò che è più leggero, dagli aquiloni, dal vento. Leggendo e rileggendo questi versi, non finisce di sorprenderci l’ardito accostamento col fiore che fugge la terra sullo stelo esile, e va a rifiorire lontano. E ancora, lontano: lascia la terra? Va a rifiorire in cielo? Tutta la scena, da particolare, nei dettagli e nelle emozioni, diventa cosmica.

Altra leggerezza è quella delle immagini che seguono.

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

The cats will know, Cesare Pavese

Tutto è leggero e sospeso, incantato e in attesa serena, in queste immagini di Cesare Pavese. Per alleggerirsi del peso del vivere, affidiamoci a ciò che è più leggero.

Mentre c’è un salire in cielo che è un rapimento, un abbandonare tutte le cose e un uscire da sé, un oblio di sé, per amore di Dio.Godiamoci questa immagine del Canto spirituale di san Juan de la Cruz:

“Sposo mio, in quel tuo tocco e ferita d’amore traesti fuori la mia anima non solo da tutte le cose, ma anche la togliesti e la facesti uscire da sé (perché invero, pare che la separi perfino dal corpo), e la innalzasti a te mentre invocava te, ormai distaccata da tutto per aderire a te.”

E ancora, nel Cantico dei cantici, la Sposa: “Mi alzerò e cercherò colui che la mia anima ama”, dove alzarsi, spiritualmente, equivale ad alzarsi dal suo imperfetto e basso amore all’alto amore di Dio.

Chi ama vivere sopra le cime di un sognatore di cielo deve poter trovare nel mondo dei fiori il suo cielo: i fiori si sviluppano sempre verso l’alto per conquistare un’altezza. Fuoco, aria, luce, ogni cosa che sale ha del divino. La fiamma di vita dell’essere che fiorisce è una tensione verso il mondo della pura luce, e non è una fuga, un rapimento per andare a rifiorire altrove, lontano.

Riposiamo in questa atmosfera leggera e sospesa, incantata e in serena attesa. Tutto continua a fiorire. E’ un divenire felice che si dà con lentezza. Il cielo e i fiori insegnano la meditazione lenta. Sono fiaccole nei giardini del cielo, in armonia con i fiori nei giardini dell’uomo, sono fiamme sicure, sono fiamme leggere e lente, come le prime ombre della sera.

Sì, la pura luce! Quando tutto perde peso, tutto è leggerezza e non più di una pagliuzza di luce: “Andai a stendermi là sopra [sui covoni] bene al riparo (…) Caddi in un sonno talmente lieve, che pur dormendo non mi sembrava di dormire. Godevo di un immenso brusio di sole e di soffice paglia e mi sentivo trasportare da un’aerea potenza d’ebbrezza entro il gran fervore meridiano che aleggiava sul terreno fiammeggiante di caldo. Tutto in me perdeva peso ed io stesso non ero più che una pagliuzza di luce” La fattoria, Henri Bosco.

Assistiamo, “belli di tormento”, a questo cosmico levarsi al cielo, spinti dal mistero; potrebbe svelarsi una giovane luce:

“Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchettii le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi, per sentieri di chiarìe salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero”. Canti Orfici, La notte, Dino Campana.

Esaltiamoci, il volo è dentro di noi, tutto ci porta verso l’alto, verso le nuvole, verso la luce, verso il cielo. Alleluia! Esultiamo per questo, lasciamoci portare dalla gioia che ci avvolge, come un’atmosfera di luce, e ci porta come una nuvola è portata dal vento.

Se troviamo difficoltà a diventare aerei, a volare, non si tratta di trovare o inventare una tecnica. Impariamo prima a stare sulla terra, a camminare e a danzare. Chiediamoci il peso che ci impedisce di volare, e se possiamo avere un avvenire aereo. Cominciamo col buttare da noi tutti i nostri pesi, tutti i nostri rimpianti, tutti i nostri rancori, tutto ciò che dentro di noi guarda al passato, tutto il nostro essere pesante. Solo dopo esserci liberati di tutto ciò che in noi è terra, solo allora ci innalzeremo nell’aria, liberi come l’aria.