L’immaginazione materiale alimentare

 

L’immaginazione materiale alimentare

Mangiare non è solamente un’esplorazione e una conquista, ma è il più serio dei miei doveri.

Memorie di una ragazza perbene, Simone de Beauvoir

Vi è più ragione nel tuo corpo
che nella tua migliore sapienza.

Così parlò Zaratustra, F. Nietzsche

Mangiare, digerire, assimilare coinvolgono le qualità materiali: le proprietà del cibo nel momento in cui si manifestano, ci coinvolgono e ci fanno immaginare altro. Nel mangiare, la consistenza del cibo percepita nel masticare, il sapore che si rivela al nostro gusto, la resistenza sotto i denti, ci manifestano l’immagine di un essere che ci sfugge totalmente, pur essendo totalmente lì davanti e sotto le nostre mascelle. Ogni rivelazione intuitiva – il vischioso, il rugoso, il liscio, il pesante, il leggero, il dolce, il tenero, il duro – costituisce una proiezione di immagini esistenziali che ci interrogano su preferenze e rifiuti. Ma sarebbe riduttivo pensare che le qualità del cibo e della digestione siano soltanto nostre proiezioni affettive e dell’immaginazione sulle cose e sui fenomeni. Siamo presi dalle qualità materiali del cibo e delle sue trasformazioni. E’ in gioco un’immaginazione materiale. Il vischioso, ad esempio, può funzionare come immagine di relazioni umane negative perché una certa qualità materiale rende difficile trasparenza e sincerità. Per poter stabilire come avviene una relazione simbolica tra vischiosità e il fare mellifluo di certi individui, bisogna che il vischioso sia già nella sua materialità propenso ad esprimere quel certo significato negativo, ma nello stesso occorre che questa proprietà risvegli un accordo con quel certo modo di essere. L’esperienza del vischioso e del mucoso, del molle e del gelatinoso coniuga la materialità del bolo e del chimo, la traccia di una fatica dello stomaco e dell’intestino con un cammino difficile nel sogno e nella vita.

Non è dal corpo in sé che nasce il piacere, ma dal contatto del corpo con il cibo. Il gusto di questo frutto non è nel frutto, nella sua polpa o nel suo succo, ma è nel lasciarsi assaporare, perché il piacere, sebbene non indifferente alle qualità del frutto, è ciò che la cosa risveglia in me, quasi una sua eco. Così il piacere non è solo il mio corpo che sente, ma sono io che coincido pienamente con la sua sensazione, perché pienamente al mio corpo mi sono concesso.

L’anoressica rifiuta di assumere il suo corpo e perciò non lo alimenta e progressivamente lo distrugge. Ciò che manca è il richiamo di essere presente al mondo, per cui non resta che man mano assentarsi. Non si alimenta la propria presenza in un mondo che non interessa o che non accoglie. Il corpo è prima di tutto un’apertura al mondo e il mangiare un proprio modo di essere al mondo.

I disturbi gastrici non sono causati da carenze di affettività o da forme di repressione sessuale, ma dall’impossibilità di essere presenti e di esprimersi in un mondo che si sente troppo ostile o troppo proibitivo, per cui si dirigono contro il corpo la proprie pulsioni aggressive e sessuali.

I bruciori stomacali, associati o meno a rigurgiti gastrointestinali, ci fanno immaginare un “inferno vivo”, che appunto brucia e si erge, che possiede la vocazione verticale verso l’alto delle fiamme. Anche in questo caso l’immaginazione materiale è dinamica. Non occorre forse sottolineare che la fiamma allungata viene immaginata come tirata dai due lati, dall’aria e dalla terra. Essa è dinamicamente allungata, è insieme un’esaltazione e uno strappo che brucia.

Ci troviamo spesso ad avere a che fare con difficoltà ad ingerire e con rigurgiti gastrointestinali ed insieme con sogni di impasti, invischiati in un ambiente viscoso, in condotti molli. Sono di volta in volta una difficoltà a procedere o una sconfitta nel tentativo di formare, impastare, digerire, assimilare. Il chimo avanza lentamente nell’intestino, è un fluido che fermenta e scorre poco. Quando non riusciamo a inghiottire o a defecare è come quando nella vita ci troviamo davanti ad una strada che si restringe, è come trovarsi davanti ad una lunga gola o trovarsi all’incrocio di diverse strade per cui non si va né da una parte né dall’altra, né su né giù. Sono due angosce in qualche modo complementari. Sono tipici incubi labirintici. E’ tutta una materia esitante, nell’intestino come nel sogno. L’essere è ostruito nel proprio cammino, ha possibilità di avvenire bloccate. La digestione intestinale diventa pesante, segue un tempo e uno spazio viscosi, come gli orologi molli di Salvador Dalì: si stirano, gocciolano sull’angolo del tavolo. Sono immagini con una forza profonda, di flessioni profonde di una materia sognante che vede che il passaggio è angusto e che le prospettive vanno a ridursi. Si è presi nel medesimo tempo dalla difficoltà angosciosa a procedere e dal non vedere che la viscosità incontrata possa dare il beneficio di una salutare lentezza.

Io ho fame. Io ho sete. Non esiste la fame-in-sé, la sete-in-sé. Non esiste una fame in sé senza una coscienza di fame. Nella fame lo stato corporeo è sì presente, ma per essere superato nel soddisfacimento – il corpo viene sorpassato, ma non il desiderio di cibo che è insopprimibile. Come direbbe Sartre, nella fame il soggetto sfugge al proprio corpo verso i suoi possibili, verso uno stato di fame-soddisfatta. Il corpo è il «passato», il «superato», è semplicemente una contingenza da oltrepassare nel suo stato di essere-affamato verso la possibilità di soddisfacimento del bisogno.

Anche la sete e la fame non sono istinti allo stato puro. Abbiamo una coscienza di fame e una coscienza di sete. L’uomo affamato non si limita ad una sazietà data, non cerca una “fame placata”, si supera e si proietta verso una possibile condizione futura di saziarsi. Quando diciamo di aver fame o di aver desiderio di cibo, non descriviamo uno stato fisiologico, ma un desiderio, una proiezione e una mancanza che vogliamo in qualche modo sostenere. Nella fame sfuggiamo alla soddisfazione del nostro corpo per aprire ai suoi possibili. Il corpo soddisfatto è il passato, il superato, è una contingenza da oltrepassare mantenendo il nostro stato di essere-affamati.

Io ho fame, mangio e mi sazio. Oppure ho sete, bevo e mi disseto. Cosa è accaduto? Si è verificato, attraverso il soddisfacimento di un bisogno, il passaggio da uno stato all’altro. Ma la tensione pulsionale alimentare dello stato iniziale non può consistere nell’appetito verso un altro stato predeterminato da un fenomeno biochimico. Il superamento dello stato iniziale nello stato successivo di dissetamento o di sazietà deve avvenire per un processo desiderante proprio dell’uomo che cerca altro, il possibile, l’immaginabile e va oltre il soddisfacimento meccanico di un bisogno. La sete soddisfatta, la fame placata sono realizzazione di una possibilità, ma non sono soppressione di sete o di fame, sono apertura di un nuovo orizzonte di possibilità. Sono sete e fame che passano come desiderio di altra pienezza di soddisfazione. Si passa da insoddisfazione a un’insoddisfazione. La sete e la fame mosse dal desiderio tendono a perpetuarsi.

Sul versante opposto, col digiuno non si pongono questioni di quale fame o quale sete. La fame si patisce non si sceglie. Siamo nel campo delle immagini che invitano a rinunciare, a privarsi di qualcosa, a liberarsi dai pesi superflui, a depurare, eliminare, a fare pulizia intestinale, a disintossicare. Quando si tratta di digiuni, o di “alleggerirsi”, mangiare meno, astenersi dal bere più del solito, abbandonare le cattive abitudini, si passa da un nutrimento esterno a uno interiore, per trovare l’armonia spirituale con se stessi. Digiunare diventa allora un digiuno mentale, spirituale, relazionale, purificazione dello spirito, pace interiore, libertà. E’ purificarsi con tutti i sensi: “digiuna l’occhio, mentre si astiene da sguardi curiosi; digiuna l’orecchio, che non ascolta chiacchiere e pettegolezzi; digiuna la lingua, che si trattiene da calunnie, mormorii e inutili parole e apprezza il silenzio; digiuna la mano, che lascia andare le cose inutili, ma più di tutto si trattiene dai suoi stessi errori” Discorsi, Bernardo di Chiaravalle.

Il digiuno forse ci dà l’immagine più evidente del carattere sostanzialmente esistenziale del mangiare e del desiderio: che c’è di più desiderabile e di più insoddisfacibile del cibo spirituale?

Il digiuno rappresenta
per il mondo interiore
ciò che gli occhi rappresentano
per quello esteriore.

Young India 1924, Mahatma Gandhi

Erri De Luca racconta la sua pratica di astinenza dal cibo, il suo viaggio verso il fondo del digiuno: “Ho avuto tempo di esplorarmi il corpo … Mi accorgevo di abitare un labirinto.
Quando ero stremato, consumato di energie, scoprivo che il corpo mi nascondeva una riserva.
Mi ingannava sul livello del serbatoio, per farmi fermare.
Poi mi rilasciava un’altra dose di forze.(…)
E’ una macchina antica e misteriosa, ci sto da inquilino e non da proprietario.
Quando credevo di raggiungere il confine della sua resistenza, ecco che il suo confine si spostava più in là e non si lasciava toccare.
Il corpo è stato per me uno spazio più grande e segreto di quanto potevo esplorare”.

Il giro dell’oca, Erri De Luca.

Sono immagini e prospettive del corpo ben diverse: dall’essere tutt’uno col corpo di Ghandi al tu per tu con il corpo di De Luca …

La dimensione aggressiva del mangiare ci è data dall’uso metaforico di verbi quali mangiare o divorare, riferendolo a persone che si amano tanto o che le si vorrebbero vedere morte: “mangiare vivo”, “mangiarsi il fegato”. “mangiare con gli occhi”, “mangiarsi le mani”, “mangiare di baci”.

Ma c’è da osservare che la scelta di cibi da ingoiare senza perdere tempo a masticare comporta un minore investimento di volontà: la volontà di inghiottire risulta particolarmente debole paragonata a quella di masticare. Si può classificare tutta una gastronomia a partire dal bisogno sia di preparazioni psichiche che di preparazioni culinarie, ponendo agli estremi di questa mappa gastronomica la soddisfazione della volontà di mordere e la concessione del tempo felice durante il quale ingoiavamo tutto, con gli occhi chiusi. Tra le due azioni di mordere e di ingoiare avremo i differenti livelli di masticazione e di immaginazione, andando dall’aspetto organico a quello esistenziale ed immaginifico, senza mai accontentarci di un unico piano di realtà.

La masticazione, se è negazione aggressiva dell’alimento vegetale o animale, in vista di una distruzione e di una discesa, va vista anche come una trasformazione e come una maggiore precauzione attraverso un’anticipazione della digestione orale, prima della discesa esofagea. Ogni caduta reale ed immaginata richiede di vincere la paura: la deglutizione non sempre è facile, non è facile scendere nel cuore dell’intimità protetta. E poi questa discesa infatti è trasformazione: nella discesa gastrointestinale il divenire deve avvenire dal di dentro attraverso una lenta e concreta durata, per permettere l’assimilazione.

I valori negativi di angoscia e timore della caduta diventano piacere dell’intimità lentamente penetrata, attraverso una discesa viscerale frenata e rallentata, alla quale si unisce una qualità termica. Un calore dolce, un calore lento e dolce. E’ la lentezza e il calore dell’elemento pastoso. E’ un calore morbido e carezzevole, penetrante, guai se bruciante, segno di una profondità intima, di una calda intimità. La discesa felice è allora digestiva e sessuale insieme.

L’immaginazione della discesa rimanda all’intuizione freudiana che vede nel tubo digestivo l’asse discendente della libido, dalla bocca all’ano, e che vede nelle immagini digestive, orali o anali, spesso il sintomo di regressione narcisistica. E’, come scrive Bachelard, attraverso un procedimento involutivo che si comunica ogni movimento inteso ad esplorare i segreti del divenire intimo.

Come spesso accade insieme ad una volontà di immaginazione convive l’immaginazione morale. Dai postmoderni regimi alimentari estremi (diete vegane, crudiste…..) ingoiare può essere visto come un’immagine positiva (si incorpora senza distruggere), mentre masticare può essere considerata un’immagine negativa. Ma non lasciamoci bloccare dalle immagini negative del masticare, come negazione aggressiva dell’alimento vegetale o animale, in vista di una distruzione e di una discesa. Anche in questo caso, ci può venire in aiuto un’apertura dell’immaginazione. Immagina la masticazione come una trasformazione e come una maggiore precauzione attraverso un’anticipazione della digestione orale, prima della discesa esofagea, per facilitare la discesa e la trasformazione generatrice: nella discesa gastrointestinale, il divenire deve avvenire dal di dentro, attraverso una lenta e concreta durata, per permettere l’assimilazione e generare energia per tutto il corpo.

Per altro verso, l’ingoiare e mandar giù il cibo senza masticare richiedono vincere la paura di cui è portatrice ogni caduta reale ed immaginata: la deglutizione non sempre è facile, non è facile scendere nel cuore dell’intimità protetta.

Immaginiamo come stanno bene nel ventre del pescecane/balena, una volta inghiottiti, Geppetto e Giona. Strana dimora senza finestre, dove non arriva la luce del sole, eppure si può accendere il fuoco: nel ventre della balena ci si riscalda, si riposa e ci si nutre.

Novalis, grande sognatore della verticalità delle immagini, rispetto all’essere impegnato nel destino dell’altezza e in quello della profondità, ci offre una sintesi efficace:

“Se l’universo è in qualche misura un precipitato della natura umana, il mondo degli dei è la sublimazione”. Inni alla notte, Novalis

Ed aggiunge: “I due convergono in un solo atto”.

Nessuna sublimazione è possibile senza un deposito. Questa intuizione è molto vicina alle immagini e alla realtà dell’assimilazione e del deposito delle feci. E’ una metafora naturale e un’immaginazione dinamica del duplice destino della profondità e dell’altezza.

Questa sintesi dei due poli ci fa comprendere che dentro di noi quando qualcosa scende in profondità qualcos’altro si eleva, così abbiamo che l’esperienza positiva della verticalità e dell’immaginazione dinamica è verso l’alto, che l’asse reale e morale dell’immaginazione verticale è diretto verso l’alto.

Noi siamo eretti, perché siamo impegnati nel mondo. Non lo siamo quando dormiamo. Non si tratta quindi di facile ottimismo, la salita è il senso positivo della produzione delle immagini, dell’agire positivo e giusto dell’immaginazione dinamica.

Pertanto, quando immaginiamo le trasformazioni del cibo discendendo e salendo, da uno stesso cibo abbiamo insieme l’immaginazione e l’essere di una cattiva profondità e di una buona elevazione.

Manteniamo per il cibo, come per qualsiasi altro oggetto, questa unione che si dà nello stesso atto. Potessimo sempre immaginare di essere così!