Mani, carezze

Mani, carezze

Io utilizzo la penna per trascrivere delle lettere, ma non la mia mano per tenere la penna. In rapporto alla mia mano non sono nello stesso atteggiamento utilizzante in cui sono in rapporto alla penna: io sono la mia mano. Essa è il termine dei rimandi e il loro sbocco” L’essere e il nulla, Jean-Paul Sartre

Bachelard, nello scoprire la “poesia della mano”, vede, nella mano che plasma e taglia, che leviga e che preme, immagini impegnate in una sintesi di immaginazione e volontà, di immaginazione e forza. L’impegno è rivolto al risultato, dal momento che ci compiacciamo del nostro lavoro e del risultato ottenuto. La mano che vuole trasformare si esalta di fronte delle varie resistenze della materia, incoraggia la volontà. Ogni resistenza diventa una sfida. Le forze latenti immaginarie si fanno percepire come resistenze e le mani le immaginano. La mano vigorosa ama imporre le sue immagini su una materia ribelle.

Sono dinamismi che ci riguardano: il nostro non fermarci sulle apparenze e penetrare in profondità, chiama all’incontro della vista con la mano, la materia lavorata ci rimanda alla nostra energia, è lo specchio tramite il quale prendiamo coscienza della nostra potenza e della nostra forza, della nostra abilità, della nostra tenacia. Di qui le “immagini manuali” di cui ci parla Bachelard, le gioie visive e tattili, direttamente creatrici, che ci danno le mani. Gioie visive e manuali che i poeti sanno ben trasporre nella pagina scritta.

Così la materia si umanizza, nel processo stesso della sua trasformazione e attraverso il nostro potere di creazione.

Altra origine ha la mano che, sospesa nell’indugio, vuole vedere … e scivola facilmente verso la carezza. Insoddisfatta del riconoscimento, vuol conoscere ancora, anche se non sa cosa cercare.

Quello che ci attrae nelle mani, una volta liberate dal fare (e consegnate al piacere), è forse proprio la sospensione di senso e l’ambiguità, che comprendono discordanze e sospensioni: un dito può tendersi per indicare, solo se altre dita si piegano, una mano per respingere non può fare a meno di offrire il palmo.

Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.

Tre poesie alla mia balia, Umberto Saba

Quel “mi tiene” è un farsi tenere, da un braccio che più che forza dà tenerezza. E poi, che immagine istantanea “ignudo”! che fiammata dal dolce calore!

La carezza è contato fisico che prelude (o segue) un abbandono.

Un’immagine, un gesto: passare la mano sulla fronte per aggiustare i capelli e scacciare i pensieri.

Le carezze non sono mai per se stessi, esprimono un particolare stato dell’animo verso l’altro, mentre generano calore intimo, nascono dal bisogno di penetrare, di andare dentro l’intimità delle cose, all’interno degli esseri. Dove non arriva lo sguardo che accompagna le carezze, dove non penetra la mano, si insinua il calore. Le carezze generano infatti dal palmo delle mani un calore condensato, più che un irraggiamento luminoso.

Il bisogno di sentire prevale sul bisogno di vedere. Gli occhi non guardano le mani, desiderano accarezzare con lo sguardo, le mani vogliono “vedere”, oltre la superficie. Ma attenzione le nostre mani immaginano bene come i nostri occhi. Come il bambino: quando vuole accarezzare il volto della madre, non guarda la sua mano, ma quel volto.

Quando ci accarezziamo difficilmente ci guardiamo negli occhi, siamo piuttosto ciechi e lasciati nella condizione del sognare ad occhi aperti. Le carezze d’altronde non sopportano lo sguardo dell’altro, sono in certo qual modo pudiche, preferiscono darsi al buio. Così, non lasciamo guardare le mani che accarezzando esplorano e né guardiamo propriamente il corpo accarezzato, in quanto siamo presi da un vedere speciale, vedere con gli occhi dell’anima, toccare con mano la vita.

Le mani che accarezzano sono cieche, anche quando sono accompagnate dallo sguardo di chi accarezza, toccano per vedere nell’anima.

Le mani, accarezzando, sognano.

Quante tentate carezze: mano che sfiora appena, seguita dallo sguardo e dal dolce sorriso di chi accarezza, attratta dall’abbandono, ad occhi chiusi, di chi si lascia accarezzare. Mano avvolgente, che, invece di far presa, rimane aperta e tesa per accogliere, e mai si chiuderà per plasmare, possedere. Mano vuota, che vaga intorno all’altro e che sfiora, lasciando lo sguardo perso e incantato nel vuoto.

Le carezze hanno uno straordinario potere sulla nostra memoria: una carezza, specialmente se mancata, non si scorda mai. Gesto magico avvenuto una volta, gesto nascosto, non visto con gli occhi del corpo e visto con gli occhi dell’anima, tenero ricordo, sommerso ma prolifero, traccia incancellabile nella nostra intimità, capace di rigenerarsi da quella volta, per tante volte ancora.

Le carezze cercano, possono venire da una mancanza, da un nulla.

Ride ancora il tuo corpo all’acuta carezza
della mano o dell’aria, e ritrova nell’aria
qualche volta altri corpi? Ne ritornano tanti
da un tremore del sangue, da un nulla. Anche il corpo
che si stese al tuo fianco, ti ricerca in quel nulla.
Era un gioco leggero pensare che un giorno
la carezza dell’aria sarebbe riemersa
improvviso ricordo nel nulla. Il tuo corpo
si sarebbe svegliato un mattino, amoroso
del suo stesso tepore, sotto l’alba deserta.
Un acuto ricordo ti avrebbe percorsa
e un acuto sorriso. Quell’alba non torna?

Sogno, Cesare Pavese

Pavese ci sorprende: una carezza come può essere acuta? Ci fa immaginare, con questa parola, acuta, carezze che non rimangono in superficie e che non appartengono ad un tempo presente distensivo. Piuttosto sono penetranti, risvegliano con ritorni improvvisi: acute carezze fanno vuoto, per lasciarsi percorrere al risveglio da ritorni (dal nulla) di acuti ricorsi e di acuti sorrisi. Le acute carezze sono immagini che richiamano ricordi, provocano sogni.

Per Rilke il momento di Raccoglimento di Maria con il Risorto è istante fecondo e penetrante della creazione di una nuova età:

Guarivano, oh sì! Bisogno non c’era
d’intenso contatto.
Soltanto un istante la mano
già quasi eterna
lui sulla spalla di donna appoggiò.
E, come in tacite
piante, l’età nuova fu in loro,
coevi infiniti,
e fu primavera
di un conoscersi estremo.

Che immagine istantanea e illuminante! È l’appoggio, il tocco sulla spalla, è dolcezza e carezza pur sempre terrestre.

Ci sono carezze più intense, sulle ferite d’amore. Godiamo di queste dolci immagini di tenerezza ed unione nelle ferite dall’amore per Gesù Cristo, paragonato al cervo ferito: “La peculiarità del cervo è di salire ai luoghi alti e, quand’è ferito, in tutta fretta, di correre a cercare refrigerio in acque fresche. Se ode la compagna lamentarsi e sentire che è ferita, subito le si avvicina, la consola e l’accarezza. E così fa ora lo Sposo perché, vedendo la Sposa ferita per suo amore, pure egli, al suo gemito, viene ferito dall’amore di lei; fra innamorati infatti la ferita di uno è di entrambi, e uno stesso sentimento li anima” Cantico spirituale, Juan de la Cruz.

La carezza, mentre rimane impressa nel profondo della nostra memoria, è la leva che muove, che risveglia e lancia verso il futuro, per questo non può essere data da una mano tremante come nell’immagine di Pavese:

Se a sfiorare quel volto la mano non fosse malferma
– viva mano che sente la vita se tocca –
se davvero quel freddo non fosse che il freddo
della terra, nell’alba che gela la terra,
forse questo sarebbe un risveglio, e le cose che tacciono
sotto l’alba, direbbero ancora parole. Ma trema
la mia mano, e di tutte le cose somiglia alla mano
che non muove.

Fine della Fantasia, Cesare Pavese

Quanta fiducia nel futuro e quanta audacia può dare una carezza materna dalla mano sicura! Pensiamo a Francesco, se non avesse avuto le carezze nascoste della madre! Con Hermann Hesse, in L’infanzia di San Francesco d’Assisi, immaginiamo la madre accarezzare Francesco dormiente e pensare che ”questo bambino avrebbe avuto certo tanto amore nella sua vita, era certo, ma anche tante, tante delusioni. Non sarebbe diventato un cavaliere, quelli erano solo sogni. Ma a qualcosa di non comune era senz’altro destinato, nel bene o nel male”. Segue un gesto e una scena con un grande valore simbolico: “Nell’oscurità della stanza fece su di lui il segno della croce e lo chiamò in cuor suo con quel nome che egli stesso più tardi si sarebbe attribuito: poverello”.

Ma che forza di immaginazione istantanea, che magnifica semplicità ha quella parola “poverello”! Le immagini di carezze, che ci ispira Herman Hesse sono di mani dal tatto passivo, di mani che non vogliono plasmare, ma che sanno immaginare senza ricorrere alla forza della volontà.

“Le nostre mani immaginano bene come i nostri occhi.” La poesia della materia, Gaston Bachelard

Le carezze hanno uno straordinario valore per il nostro modo di essere al mondo. Quanta sfiducia nel mondo si genera da carezze ricercate e mancate! Quanto del nostro essere felice lo dobbiamo a carezze vissute!

Lo sfiorare, ogni abbandono tacitamente consentito, ogni rimando ad altro, implica un avvenire.

La stessa carezza ha un futuro: appena si dà è destinata a ripetersi. Una carezza porta l’altra: gesto cieco che si ripete, senza cognizione del tempo, in superficie, seguendo il palpito rassicurante di un cuore in pace con il mondo. La carezza lascia, ogni volta, il segno ed è destinata a ripetersi virtualmente per il futuro, è amica della speranza.

E’ un gesto che non appartiene soltanto al nostro passato personale, è forse un gesto primordiale che ripete l’invito, proprio di ogni essere vivente, ad abbandonarsi sotto l’ala materna.

Che c’è di più tenero di una madre che accarezza il figlio addormentato! Questi gesti nascosti sono il nutrimento delle nostre speranze.

“Come una madre accarezza il suo bimbo, così vi consolerò, vi porterò nel mio cuore e vi terrò sulle mie ginocchia” Is 66, 12-13.

Ci sono carezze e parole buone che hanno commosso il mondo. Piazza San Pietro è illuminata da oltre quarantamila fiaccole: e le parole di papa Giovanni XXIII scendono nel cuore di tutti e li riempiono di una grande gioia. Il papa conclude:”Tornando a casa troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini e dite:”Questa è la carezza del papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare: fate qualcosa! Dite una parola buona”.

Ci sono carezze virtuali, quando il calore intimo è legato al caldo benessere dell’amore anche fisico. La stessa creazione originaria del fuoco è forse dovuta alla paziente e dolce esperienza di fare infiammare il pestello, facendolo scivolare nella scanalatura di legno secco. Il braccio e la mano che strofinano, i legni che battono, la voce che canta ci danno una visione primitiva di un piacere e di un lavoro ritmici, che generano un dolce calore oggettivo e la calda impressione di un esercizio piacevole.

Alla base di questo strofinare, di questa sorta di valorizzazione dell’attrito, c’è uno specifico potere affettivo, che forse spiega anche la gioia di strofinare, di lustrare, di lisciare, di cui vivono le cure meticolose di certe donne di casa.

Il fatto è che in tutte le attività umane vanno cercate le componenti di libido: l’uomo si esprime con la fusione di gesti utili e di gesti piacevoli. E la mano, prima di essere l’organo utile, è l’organo delle carezze, proprio come la voce è l’organo del canto.

Lo stesso homo faber è l’uomo delle superfici, per lui la sfera non ha centro, si realizza nel gesto di arrotondamento, con le mani che avvolgono ed accarezzano con le proprie cavità. Anche quando si utilizza il fuoco, le forme create sono modellate, più di ogni altra forma, a forza di carezze.

Ci sono ancora lavori manuali nei quali la forza è inibita, contenuta, controllata ed il materiale è ritmato ed accarezzato, con movimenti dolci ed avvolgenti. Meno forza si imprime, più tenero è il ritocco, più liscio e bello è l’oggetto.

Quanto è difficile di fronte a questi lavori distinguere l’utile dal piacevole!

Forse per questo, nel ricordo dell’uomo riscaldato dall’uomo, nel ricordo di un calore condiviso, gli amanti continuano a parlare del loro nido, ben chiuso ed avvolgente, come una carezza continua.

D’altronde, se abbiamo una coscienza profonda del benessere del calore, se consideriamo il calore un bene ed un valore, bisogna che vada donato soltanto ad un essere prescelto, che meriti la comunione, una fusione reciproca. Niente giochi di luci e di ombre di superficie, con le carezze non si scherza, il loro calore seduce, penetra.

E allora gioiamo del nostro respiro, ne prendo coscienza e immagino che, respirando, mi accarezzo amorevolmente.

Le carezze infatti possiamo trovarle impresse in un dolce sonno. Immaginiamo le carezze del sogno di Teresa di Gesù Bambino: ”Vedendomi così teneramente amata osai così pronunciare queste parole: ”Oh Madre mia, vi supplico, ditemi se il Signore mi lascerà a lungo sulla terra: Verrà presto a prendermi?” (…) Il volto della santa prese una espressione incomparabilmente più tenera della prima volta che mi aveva parlato, il suo sguardo e le sue carezze erano la risposta più dolce. (…) Dopo avermi accarezzata con più amore di quanto non abbia fatto per suo figlio la più tenera delle madri, la vidi allontanarsi” Storia di un’anima, Scritto autobiografico B.

Ci sono carezze che sono soffi, brezze, e in proposito possiamo notare che la fronte è particolarmente sensibile al minimo soffio. Proviamo ad usare un ventaglio e scopriremo l’estrema delicatezza e sensibilità della fronte.

Immaginiamo, lasciamoci accarezzare da un vento che porti parole e semi, come in natura il vento insemina i fiori.

E’ un soffio leggero,
sa essere un compagno
discreto, 
affettuoso.

Con la sua mano d’aria
carezzevole
dona
freschezza di respiro.

Soffio di vento, Antonio Biancolillo

Immaginiamo ora che sia il vento leggero, che siano le brezze e i soffi primaverili ad accarezzare noi, con i capelli e i pensieri al vento, facendo fuggire qualcosa sulla nostra testa:

Le erbe piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio.
La commozione del silenzio intenso era prodigiosa.
Che cosa fuggiva sulla mia testa?
Fuggivano le nuvole e le stelle, fuggivano.

Pampa, Dino Campana

Che mistero, per noi in piedi nella Pampa, in questa corsa delle nuvole e delle stelle nel vento.

Facciamo silenzio e lasciamoci andare all’invito di Zarathustra a farsi aerei: ”Come un vento leggiadro, non visto, danza sul mare liscio come l’olio, – lieve, leggero come una piuma: così – il sonno danza su di me.

Non si chiude l’occhio, l’anima si lascia vegliare. E’ lieve, davvero! Lieve come una piuma.”

Immaginiamo il vento ora più forte ora più fievole; aumenta, soffia decisamente salute e rinnovamento, spensieratezza e coraggio. Il vento diventa ancora più forte, ne sfidiamo la potenza camminando con la faccia al vento.

Ci sono persone dolcemente ritrovate, come “oggetti” tanto famigliari – e che si credevano perduti. Non osiamo toccarle queste persone, preferiamo accarezzarle con gli sguardi: ”Mi pareva di sognare. La lampada, illuminando dal basso il viso di Genoveffa, faceva dolcemente luccicare i suoi occhi. (…) Lei continuava a guardarmi dolcemente in viso e si sarebbe detto che provasse un piacere innocente, come quando si ritrova dopo qualche anno un oggetto usuale che si credeva perduto e che, sebbene di nessun valore, ci era parso indispensabile per il fatto di esserci familiare da tanto tempo” La fattoria, Henri Bosco.

Le carezze appartengono alle penombre, ai mormorii, alle semioscurità e ai tenui soffi.

Seguiamo le luci e le ombre dei Primi poemetti pascoliani:

A letto, il buio li fasciò, gremito
d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d’ogni angolo al labbro alzino il dito.

I due fanciulli

Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera

Digitale purpurea

 

E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
e le sue rughe apparvero al barlume.

Canto primo

Splendea la luna su quel gran lenzuolo
candido, come, accanto un letto, il lume
dimenticato, e scricchiolava il suolo

Accestice

Pascoli ci immerge nel carezzevole mondo delle ombre, ombre grandi dappertutto, nella stalla, nella camera, nella notte lunare, e ombre sempre:

Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano …

I due fanciulli

Sono carezze visive e carezze uditive.

Immaginiamo, accarezziamo e ora rimaniamo, col fiato sospeso, a bere il mattino cosmico: dalla lenta carezza sulle rugiade del prato al bere il silenzio di luce e l’ultima stella:

Struscio accarezzando
lentamente
erbe del prato e rugiade
E ora bevo,
fiato sospeso,
l’ultima stella,
bevo
il silenzio di luce
di questo mattino.

Le paure che ci abitano, Angelo Casati

Da queste immagini e momenti cosmici ad una dolce sintesi della durata di un soffio, di una fiamma d’amore:

La vita è un soffio di vento…
che mi accarezza con dolcezza
sussurrandomi,
L’amore brucia l’anima.

La vita è un soffio di vento, Renata Koco

E’ un soffio, un vento che mormora: è il soffio dell’alito di Dio creatore che aleggia sulle acque (Gn 1,2) e plasma il capolavoro assoluto che è l’universo intero; è quel mormorio leggero nel quale, ancora Dio, parla ad Elia (1 Re 19,12).