Salite e discese

Salite e discese

I cieli per la loro altezza,
la terra per la sua profondità
e il cuore del re sono inesplorabili.

Proverbi 25, 3

L’immaginazione è particolarmente legata alla verticalità, ai processi di discesa e di ascesa. Tenuti sulla terra dalla forza di gravità, liberati dal valore della leggerezza, ci eleviamo spinti come da un vettore verso l’alto. Nello stesso tempo, siamo degli esseri profondi, ci nascondiamo sotto superfici, apparenze, maschere, e non siamo nascosti solo agli altri, lo siamo anche a noi stessi.

Questa dinamicità verticale è alla base del metodo di Desoille sui sogni ad occhi aperti guidati.

“Le immagini di movimento caratterizzate lungo l’asse verticale hanno fatto apparire nella maggior parte dei miei pazienti un numero considerevole di stati di coscienza latenti di estremo interesse (…) La proposta essenziale per realizzare questa esperienza è sempre stata quella di ascesa o di discesa, alla quale ho aggiunto più avanti quella di discesa molto in profondità, partendo da immagini della vita reale” Teoria e pratica del sogno da svegli guidato, Robert Desoille.

E’ un destino umano vivere sotto il peso delle preoccupazioni e della stessa gravità fisica, e desiderare di diventare leggeri, fino a liberarsi in volo. Ma il peso non è solo del mondo, sta nella nostra anima, sullo spirito, sul cuore e sull’uomo. E’ la vita spirituale ad essere caratterizzata dall’azione dominante di crescere, di elevarsi. Così le immagini poetiche sono portatrici di elevazioni, ci alleggeriscono, ci sollevano. Nel Prometeo liberato di Percy B. Shelley, il gigante tende verso l’alto con tutta la tensione delle sue catene. E’ il destino dell’uomo che agisce sulle catene, per cercare lo slancio capace di liberarlo. E’ la tensione tipica dell’involarsi, quando vogliamo prendere lo slancio, come uccelli in gabbia, e sempre pronti a spiccare il volo.

Ci riferiamo, quindi, in questo caso, non all’esperienza dello slancio, ma alla volontà di slancio: staccarsi dalla Terra, dalla pesantezza e dall’orizzontalità del suolo.

E, trattando di ascese, non c’è da meravigliarsi se riporteremo sogni fatti da teologi ed analizzati da Jung.

“Un teologo protestante fece più volte lo stesso sogno: si trovava sul versante di una montagna, sotto la quale giaceva una valle profonda che conteneva un lago oscuro. Egli sapeva, in sogno, che qualche cosa lo aveva fino allora sempre trattenuto dall’avvicinarsi al lago, ma quella volta decise di raggiungerlo. Mentre si avvicinava alla riva, l’atmosfera si faceva buia e tetra e un colpo di vento guizzò all’improvviso sullo specchio dell’acqua. Allora, preso dal panico, egli si svegliò”. Questo sogno, commenta Jung, “mostra il linguaggio naturale del simbolo. Il dormiente scende nella profondità del suo essere, giungendo così all’acqua misteriosa. Qui accade il miracolo di Betsaida: un Angelo scende e agita l’acqua, conferendole un potere risanatore. Nel sogno è il vento, lo pneuma che spira dove vuole. Occorre che l’uomo discenda all’acqua perché questa si animi. L’alito spirituale che guizza sopra l’acqua oscura è però inquietante come tutto ciò di cui non siamo, o di cui non conosciamo la causa. (…) Bisogna seguire la via dell’acqua, che va sempre all’ingiù, se si vuole riportare alla luce il tesoro. (…) La discesa nel profondo sembra precedere l’ascesa. Così un altro teologo sognò di vedere in vetta a un monte una specie di castello del Gral. Si avviò per una strada che sembrava condurre proprio ai piedi della montagna e all’inizio della salita. Ma quando fu più vicino, scoprì con una grande delusione che un abisso lo separava dal monte, un burrone tetro e profondo nel quale gorgogliava un’acqua d’averno. Un sentiero ripido conduceva sul fondo e riarrampicava faticosamente su per l’altro fianco. Ma la prospettiva non era invitante, e il teologo si svegliò. Anche qui, al sognatore che tende ad una più luminosa altezza si oppone la necessità di sprofondare prima in un baratro oscuro”. Gli archetipi dell’inconscio collettivo. C.G. Jung, 1934/1954.

Quando sogniamo sotto il segno dell’anima, profondamente, scendendo sempre scendendo, troviamo nell’anima della profondità, nella pienezza dell’anima, il nostro riposo, il riposo femminile, al di fuori degli affanni, delle ambizioni, dei progetti.

Paradossalmente si discende per risalire.

A fronte di questa tensione verso l’alto, nella dinamica della verticalità che caratterizza l’immaginazione, va riconosciuta una innegabile realtà psicologica alla direzione verso il basso: le metafore sulla caduta sono anche più numerose di quelle sull’ascensione.

E’ il percorso, in qualche modo obbligato, che indica C.G. Jung: “Apparentemente lo Spirito viene sempre dall’alto, mentre dal basso viene tutto ciò che è torbido e riprovevole. Per questa concezione spirito significa la più alta libertà, un librarsi su abissi, una liberazione dal carcere ctonio e perciò un rifugio per tutte le anime timorose che non vogliono divenire”. Gli archetipi dell’inconscio collettivo. C.G. Jung 1934/1954.

La paura di cadere è una paura arcaica e al tempo stesso familiare, ma con poco respiro per l’immaginazione.

Non è così per Rainer Maria Rilke:

Le foglie cadono da lontano, quasi
giardini remoti sfiorissero nei cieli;
con un gesto che nega cadono le foglie.
Ed ogni notte pesante la terra
cade dagli astri nella solitudine.
Tutti cadiamo. Cade questa mano,
e così ogni altra mano che tu vedi.
Ma tutte queste cose che cadono,
Qualcuno con dolcezza infinita le tiene nella mano.

Autunno, da Il libro delle immagini, Rainer Maria Rilke

Le foglie che cadono, la terra che cade mi ricordano la mia caducità, ma senza farmi paura. Mi invitano piuttosto a lasciarmi andare nelle mani di Dio, a sentirmi sorretto dalla mano eterna e pietosa di Dio. Non andrò nel vuoto, bensì tra le sue braccia, paterne e materne.

La paura di non trovare un appoggio, la paura di venir meno, le cadute vertiginose in abissi senza fine sono immagini dinamicamente povere. La caduta, allora, dal momento che spesso non lascia speranza di poterne risalire, è una sorta di malattia dell’immaginazione della salita: senza la dinamica degli sforzi per rinascere e risalire non è possibile vivere nel mondo immaginario. Sprofondare prima in un baratro oscuro sembra essere condizione indispensabile per un’ulteriore salita.

Quanto più in alto giungevo
nello slancio sì sublime
tanto più in basso ed arreso
e abbattuto mi trovavo;
dissi: “mai nessuno la raggiunge!”;
m’abbattei tanto tanto
che fui in alto, tanto in alto,
che raggiunsi la mia meta.

Altre strofe volte al Divino, Juan de la Cruz

Che splendida immagine dell’ascensione! La salita al Divino è un procedere passo passo, “quanto più, tanto più”, verso una meta misteriosa e raggiungibile attraverso sentieri tutti da esplorare. Il motore della salita al Monte Carmelo è lo “slancio sì sublime”, il percorso è una scoperta continua che rende la vetta sempre più lontana e l’animo arreso e abbattuto. Ma quanto più si ha esperienza di quanto si è in alto e di quanto si è lontani dalla meta tanto più si ha la possibilità di raggiungerla.

Ogni salita, ogni involarsi si accompagna alla paura di volare e alla paura di cadere, di precipitare nel vuoto.

Il sogno di volare, a sua volta, soggiace alla dialettica del volo leggero e del volo pesante, del volo e della discesa, della vetta e del baratro, della leggerezza e della pesantezza, e quindi alle dialettiche emozionali della gioia e del dolore, dello slancio e della fatica, dell’attività e della passività, della speranza e del rimpianto, di conscio e inconscio, del bene e del male.

E’ in gioco infine il camminare, l’arte del camminare a cui ci esorta Papa Francesco: “Camminare è proprio l’arte di guardare l’orizzonte, pensare dove io voglio andare, ma anche sopportare la stanchezza del cammino. E tante volte, il cammino è difficile, non è facile. Io voglio restare fedele a questo cammino, ma non è facile, senti: c’è il buio, ci sono giornate di buio, anche giornate di fallimento, anche qualche giornata di caduta … uno cade, cade… Ma pensate sempre a questo: non avere paura dei fallimenti; non avere paura delle cadute. Nell’arte del camminare, quello che importa non è di non cadere, ma di non “rimanere caduti”. Alzarsi presto, subito e continuare ad andare. E questo è bello: questo è lavorare tutti i giorni, questo è camminare umanamente. Ma anche: è brutto camminare da soli, brutto e noioso. Camminare in comunità, con gli amici, con quelli che ci vogliono bene: questo ci aiuta, ci aiuta proprio ad arrivare alla meta cui noi dobbiamo arrivare” Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e in Albania, Papa Francesco.

Ci sono sentieri che vengono da sé, naturalmente, senza cercarli. Sono subito così familiari, che ci si abbandona facilmente ad essi. Sentiamo che sono i nostri sentieri. In essi si procede senza timore, con leggerezza. Quando li percorriamo, il tempo non conta più: non si sa mai da dove si viene nè dove si va, quando si è partiti, a che ora si arriva; e, del resto, si arriva? Questi sentieri non hanno una meta e se per caso ci abbandonano, è per disporci dolcemente in un paese più meraviglioso ancora …

Lasciamoci andare a queste immagini verso un’ascensione continua. Stiamo percorrendo a lungo lentamente una montagna non scoscesa e neppure rocciosa. L’erba è assai rada e corta. Poi la neve e la roccia nuda. Soprattutto il vento, sempre più forte. Si cammina contro vento, con una pendenza graduale e dolce, prima di arrivare ad una curva ampia e regolare, in salita, che percorriamo con un senso di benessere e di forza.

Lasciamo i sentieri semplici, sicuri, felici e misteriosi. Torniamo ai percorsi in profondità. Scendiamo nel passato. Immaginiamo di scendere lentamente in una casa profonda, lungo una scala angusta e scura, che segna ad ogni scalino la propria profondità. Scendere in questa dimora significa anche scendere in noi stessi. Spesso crediamo di scendere soltanto in un mondo di immagini, quando invece scendiamo in noi stessi, nel nostro mistero.

E non abbiamo paura, secondo la dinamica della verticalità propria dell’immaginazione, la discesa nel profondo sembra precedere sempre l’ascesa. Ci sono anche fenomeni naturali che seguono la direzione verticale nei due sensi. Pensiamo al ciclo di vita dell’acqua, fatto di condensazioni e di evaporazioni: l’acqua cade, sempre cade, fin nelle viscere della terra, lascia la terra, evapora e sale sempre più su, in un progress di leggerezza e di purezza.

Su tale simbolismo della natura, c’è un’immagine con un grande valore naturale e al tempo stesso spirituale, donataci da Teresa di Gesù Bambino, la santa dell’infanzia spirituale: la goccia di rugiada. La gocciolina di rugiada nasce in superficie, formando le incantevoli perle che scintillano alle estremità dei fili d’erba del prato, per poi scivolare profondamente nel cuore del Giglio delle valli, e là trovare molto più di quello che ha lasciato.

Questo immergersi della goccia di rugiada porta con sé i valori dell’intimità. In profondità, nello spazio interiore, in cui ancor più si condensa, si scopre una ricchezza intima, e si trova molto più di quanto si è lasciato, attraverso il valore e il processo del farsi piccoli e dell’annullamento nel Signore. E’ la via del farsi dimenticare, umiliarsi, nascondersi, estremizzati, nel piccolissimo, nel troppo piccolo e senza alcun valore, se non la misericordia infinita di Dio: Teresa di Gesù Bambino è goccia di rugiada di Gesù che si perde totalmente nell’oceano della misericordia di Dio. Il piccolo fiore di Gesù deve diventare e restare per sempre una goccia di rugiada, nascosta nella divina corolla del Giglio delle valli, e destinata a dissolversi.

Questo è anche il senso del voto di Faust, nella scena finale del Faust di Christopher Marlowe: “O anima mia, trasformati in goccioline d’acqua, e cadi nell’oceano, per sempre introvabile”.

L’oceano è la notte: la rugiada esiste solo di notte. Durante la notte della vita, su questa terra, la missione specifica della goccia di rugiada è nascondersi nel Fiore dei campi. Nessuno sguardo umano deve scoprirla e conoscerne le virtù, solo il calice che possiede la gocciolina conosce la sua freschezza. Ci si deve nascondere per abbandonarsi a Colui che si nasconde.

“Dimentica di tutte le tue cose e allontanati da ogni creatura, tu ti nasconda nel tuo interiore ritiro dello spirito e, chiudendo la porta dietro di te, cioè la tua volontà e tutte le tue cose, preghi tuo Padre nel segreto.

(…) quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Mt 6,6

La goccia di rugiada rimanda all’immagine poetica e sostanziale dell’acqua di san Francesco d’Assisi “multo utile et umile”: l’umile Francesco canta l’umiltà di sorella acqua.

La vita della goccia di rugiada è la vita stessa dell’acqua, è un continuo discendere, un discendere dal cielo alla terra, un discendere dalla superficie verso le viscere della terra, scorrendo in superficie e scivolando verso il basso, in tutte le fessure che incontra.

Come spesso accade per ogni materia originaria, l’immaginazione sull’acqua e sulla goccia di rugiada non può non essere doppia. L’acqua, che sempre cade, sale, lascia la terra, per salire sempre più su. Così il destino dell’acqua, con la goccia di rugiada, diventa bino: dopo essere andata nella profondità del calice, trova uno spazio di intimità e calore, diventa goccia seminale feconda. Si dinamizza, è un germe, dà alla vita uno slancio inesauribile. La sua potenza basta a creare un mondo e a dissolvere la notte. Così il sole, appena manda i suoi caldi raggi, la trova pronta allo slancio. Fa svanire e trasforma le gocce di rugiada in un vapore leggero, in un puro profumo, in un vapore di gioia. E la forza e lo slancio che animano l’esperienza dell’ascesa sono tali che la resistenza all’ascesa diminuisce sempre più man mano che si sale.

Seguiamo il volo in alto, tanto in alto, spinto dall’amoroso slancio divino di Juan de la Cruz:

Oltre un amoroso slancio,
non mancando di speranza
volai in alto, sì in alto,
che raggiunsi la mia meta.

Ma per dare compimento
a questo slancio divino
tanto volare dovetti
che di vista mi perdetti;
ed in tal grande cimento
nel mio volo venni meno;
ma l’amor fu tanto alto
che raggiunsi la mia meta.

Altre strofe volte al Divino, Juan de la Cruz

Solo le immagini poetiche riescono ad aprire un barlume verso il mistero del volo mistico: perdersi, venir meno nel proprio volo, affidarsi all’amoroso slancio divino, e progredendo in speranza e in amore.

Torniamo all’immagine del volo verticale della goccia di rugiada, del suo nascere e del suo trasformarsi per il sole. E’ un’immagine che, seppur fortemente dinamica, non è animata dallo slancio e dal salto, è personalizzata ed insieme sostanziale e naturale, prima che metaforica. Rispetta la materia e i modi della trasformazione di stato fisica. E mantenendosi nelle metafore delle leggi della natura, Teresa di Gesù Bambino esalta, ancora di più, la sua straordinaria purezza e semplicità, dovuta al suo non nascere dalle nuvole. La goccia di rugiada supera in bellezza e freschezza la goccia di pioggia. E’ l’acqua casta sognata, ammirata e amata da san Francesco d’Assisi, la cui trasparenza limpida riflette la castità cosmica.

L’acqua pura non è soltanto una sostanza, è pensata anche come un’energia. Con l’evaporazione la purezza si irradia. Vi troviamo l’impronta dell’istinto di leggerezza che sopravvive, come una carezza visiva, è la forza fiduciosa che ci consente di lasciare la terra, questa vita, per rinascere: si ha un mutamento sostanziale, un passaggio ad un nuovo “stato”, fisico e spirituale.

Questo simbolismo trae una forza straordinaria dall’essere il fenomeno dell’evaporazione naturale, non forzato, e dall’essere così fedelmente sottomesso al ritmo del giorno e della notte: saliremo al cielo per la piccola via, senza sforzi, con il vento e nell’aria, trasportati direttamente dalla fede e da una sensazione di felicità ineffabile.

Seguiamo la sequenza delle immagini della condensazione e dell’evaporazione della goccia di rugiada: la goccia di acqua pura, dall’apparire in superficie come perla brillante, scivola, penetra in profondità, si nasconde e purifica l’essere intimo, dà freschezza alla corolla del Giglio delle valli, evapora in cielo.

Si devono scacciare le ombre dalla fronte, si scaccia ciò che ci preoccupa, si scacciano i pensieri, prima condensandosi in gocce di rugiada, poi calandosi nella profondità del calice, dove trovano uno spazio di intimità e calore, diventando gocce seminali feconde. Poi il sole, appena manda i suoi caldi raggi, le trova pronte allo slancio. Fa svanire e trasforma le gocce di rugiada in un vapore leggero, in un puro profumo, in un vapore di gioia. E la forza e lo slancio che animano l’esperienza dell’ascesa sono tali che la resistenza all’ascesa diminuisce sempre più man mano che si sale.

Il fantasticare allora appare come una conquista anche fisica, dolce e progressiva. A poco a poco, prendiamo coscienza della nostra libertà di immaginazione.

L’evaporazione è l’esaltazione della leggerezza dell’acqua.

Partecipiamo, con i fiori dei campi, al respiro della terra. Il succedersi delle condensazioni e delle evaporazioni, al ritmo segnato dal sole, partecipa al respiro della terra. E quando, attraverso l’immaginazione, i paragoni corrono così facilmente dall’uomo al mondo, non è troppo dire che le anime respirano come la terra respira. E’ il nostro essere aereo e terreno: evaporiamo o condensiamo, sogniamo o pensiamo.

Teresa di Gesù Bambino vede nella fisica del processo della condensazione e dell’evaporazione materializzarsi un percorso d’amore, fino al passaggio all’amore eterno: quando il fiore dei campi sarà diventato il sole di giustizia e fisserà sulla goccia di rugiada uno dei suoi raggi d’amore, l’attirerà verso di sé, ed essa salirà come un vapore leggero e andrà a fissarsi nel seno del fuoco ardente dell’amore increato, e sarà unita a Lui per sempre.

Teresa di Gesù Bambino con queste immagini esorta all’amore: rimaniamo gocce di rugiada nascoste nel Giglio della valle, e diamogli piacere. Piccole gocce di rugiada sprofondiamo sempre più nel calice del Fiore dei campi e là troveremo ciò che abbiamo perduto, e molto più ancora.

Ma se abbandoniamo il ciclo dinamico della trasformazione e ci fissiamo sull’evaporazione, abbiamo l’impressione della dissoluzione più completa nel cielo: tutto si dissolve. E’ anche l’immagine del passaggio funebre, della perdita del nostro essere nella dispersione totale.

In ogni caso, queste immagini fanno bene, perché vivono della portata simbolica e morale di un elemento naturale, primitivo e primario quale l’acqua. La goccia di rugiada è un’acqua dotata di valori sostanziali e morali, è l’acqua dolce (non di mare), limpida, fresca, è infine casta, simbolo atavico della purezza naturale.

E’ l’immagine dinamica di sora acqua offerta dal Cantico di Frate Sole, prodotta dal succedersi degli aggettivi sempre più sorprendenti e inaspettati

Laudato sie mi Signore per sora acqua
la quale è molto utile et umile et preziosa et casta

La progressione degli accostamenti di valori inusuali per l’acqua comune riesce a dare un’immagine di rara bellezza.

Mi sono dissetato
con una goccia di rugiada
che ci crediate o no.

Un lupo in agguato, Abbas Kiarostami

L’acqua della brina dei fiori produce un’ulteriore valorizzazione della purezza. La goccia di rugiada rende il fiore acquatico, il fiore di ninfea, fresco, giovane, ringiovanito dalla notte. Così ad ogni aurora, il fiore, ristorato da un buon sonno nella notte estiva, rinasce con la luce, e perciò è fiore fresco, eternamente giovane, è figlio immacolato dell’acqua e del sole. La freschezza dà energia, è l’acqua della giovinezza. E quanta giovinezza rigenerante ritroviamo nella così costante e fedele sottomissione al ritmo del giorno e della notte, da una tale esatta puntualità nel segnare l’attimo dell’aurora! La ninfea ha appreso la lezione della tranquillità e dolcezza proprie dell’acqua dormiente, segue il calmo e rassicurante movimento verticale voluto dal sole sorgente e dal sole calante. E noi, guardando con stupore queste bellezze della natura, le incoraggiamo, con l’entusiasmo della parola poetica, a divenire ancor più belle, contando sull’immensa generosità delle meraviglie del creato.

Quest’immagine della purezza è dinamica, è sostanziale e attiva: è sostanziale in quanto la rugiada è acqua limpida, fatta di gocce che si formano nella notte della vita attraverso un fenomeno naturale, ed è attiva in quanto purifica: la purificazione avviene infatti, spesso, per semplice aspersione, e tale potenza intima è posseduta da ciascuna goccia. Non si tratta di immersione ma di aspersione, sia singola sia ripetuta. E’ l’acqua generatrice. La goccia di rugiada è germe di un’altra vita.

Nell’ Eneide di Virgilio, nel VI libro, “Corineo gira attorno ai compagni per tre volte, tenendo in mano una fronda di olivo intinta in acqua lustrale e irrorandoli con essa, lieve come gocce di rugiada, così li purificò”.

Tornando alla proposta delle immagini della goccia di rugiada, c’è da dire che la forza di queste immagini deve molto alla loro simbolicità e materialità, all’anima che si mimetizza negli elementi e nei fenomeni naturali: i fiori dei campi, la notte, il formarsi della rugiada, il calore dei raggi del sole, la condensazione e l’evaporazione. Sono immagini naturali e al tempo stesso umane, che vivono di polarizzazioni e sintesi dei poli, tra intimità ed espansione, tra piccolo e grande, animando i movimenti di introversione e di estroversione.

Seguiamo l’immaginazione naturale e cosmica di Vincenzo Monti:

Da l’umido suo sen la terra allora
su le penne dell’aure mattutine
grata innalzava di profumi un nembo:
e altero di se stesso, e sorridente
su i benefizi suoi, l’aureo pianeta
nel vapor, che odoroso ergeasi in alto,
già rinfrescando le divine chiome,
e fra il concento de gli augelli e il plauso
de le create cose egli sublime
per l’azzurro del ciel spingea le rote.

Al Principe don Sigismondo Chigi, Vincenzo Monti

Con queste immagini cosmiche, siamo portati nel regno dei valori e nel sublime: l’evaporazione è portatrice di profumi e benefici, dietro il canto degli uccelli e il plauso di tutte le creature.

Non sempre, purificati e alleviati dei pesi, ci si lascia trasportare dal cielo infinito, in una lenta e dolce aspirazione. Ci sono temperamenti portati ai passaggi violenti, ad un gettarsi nelle altezze, rapiti dal repentino sapore di potenza che accompagna la felicità di volare e animati dalla gioia degli impulsi istantanei. Mossi da uno slancio, da un impulso puro ci slanciamo tutti interi fuori di noi stessi, e dopo questi voli liberatori conquistiamo l’altezza.

La varietà delle immagini delle discese e delle ascensioni appartiene, infine, alla dialettica e al dramma tra basso ed alto, tra positivo e negativo, tra il male e il bene, tra abisso e vetta, tra sprofondamento e grandezza. Sono immagini morali e dinamiche di una volontà duplice e di due movimenti contrari che si fondono in quanto reciprocamente necessari.

Esaltiamoci con l’immaginazione dinamica nietzschiana dell’essere che sale e scende e attraverso il quale tutto sale e scende. Per questa anima, tutte le cose hanno una salita e una discesa, l’anima nietzschiana è un reagente che fa precipitare i falsi valori e sublima quelli veri. In questo continuo andirivieni tra alto e basso, nascono le immagini delle anime dell’avvenire, di coloro che, spinti dal bisogno di elevarsi nell’aria senza esitazione e di volare dove sono spinti, vincono la pesantezza e raggiungono la condizione aerea: “noi uccelli nati liberi! Ovunque andiamo, tutto intorno a noi si fa libero e assolato”.

Viviamo fino in fondo questo clima di altitudine immaginaria, questa energia lirica capace dello scambio tra il pesante e il leggero, tra il terrestre e l’aereo. E’ un modo tonico e salutare per far parlare agli abissi il linguaggio delle vette, per illuminare il nostro baratro, la nostra estrema profondità, appunto operando nella duplice prospettiva dell’altezza e della profondità: “Non lo conoscete: può appendere a sé tanto peso, eppure li trascina tutti verso le altezze. E voi giudicate, con la vostra pochezza, ch’egli voglia rimanere in basso, per il fatto che appende i pesi dietro di sé” F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume (1882 – 1888).

Juan de la Cruz in Salita del Monte Carmelo ci offre come immagine dei “pesi” la casa-corpo, in quanto casa di tutti gli appetiti, nella quale l’anima sta come in un carcere, dalle cui finestre soltanto si riesce a vedere qualcosa. Per la salita dell’anima verso l’Amato, la casa deve essere addormentata: gli appetiti di tutte le cose devono diventare tranquilli e addormentati, nella notte dei sensi.

Sono i “senza” necessari per la pace di “Io vulesse truvà pace” di Edoardo, ma una pace senza morte:

Io vulesse truvà pace;
ma na pace senza morte.
Una,’mmiez’a tanta porte,
s’arapesse pe’ campa’!

S’arapesse na matina,
na matin’e primmavera,
arrivasse fin’a sera
senza di’: ‘nzerrate lla!

Cantiamo questi versi! Seguiamo questi ritmi! posiamo su pause e vocali!

Facciamo silenzio. Chiudiamo queste “porte” e :

Senza sentere cchiu’ ‘a ggente
ca te dice: “io faccio…io dico”,
senza sentere l’amico
ca te vene a cunziglia’

Senza sentere ‘a famiglia
ca te dice: “Ma ch’he fatto?”
senza scennere cchiu’ a patto
cu”a cuscienza e ‘a dignita’.

Senza leggere ‘o giurnale
‘a nutizia ‘mprussiunante,
ch’e’ nu guaio pe’ tutte quante
e nun tiene che ce fa.

Senza sentere ‘o duttore
ca te spiega ‘a malatia
‘a ricetta in farmacia
l’onorario ch’he ‘a pava’

Senza sentere stu core
ca te parla ‘e Cuncettina
Rita, Brigida, Nannina…
chesta si’… chell’ata no. (…)