Sognatori di oggetti

 

Sognatori di oggetti

“Quante volte (…) m’è stato impossibile prestare attenzione a oggetti o a persone che, poi, appena un artista me n’aveva presentato l’immagine nella mia solitudine, avrei fatto miglia di cammino, rischiato la morte per ritrovare! Soltanto allora la mia immaginazione si muoveva, cominciava a dipingere” Il tempo ritrovato, Marcel Proust

Gli esercizi immaginifici possono eleggere attraverso i poeti quel fenomeno che ci vede conquistati da un oggetto familiare e fedele, da un oggetto ritrovato e che da solo rappresenta un mondo.

“E’ alla vita lenta che ci riporta la compagnia vissuta degli oggetti famigliari. Accanto ad essi siamo ripresi da una rêverie che ha un passato e che tuttavia ritrova ogni volta una freschezza.” La fiamma di una candela, Gaston Bachelard

Diventiamo, per un’ora, sognatori di oggetti.

Animiamo con i poeti le cose: l’inanimato animandosi riflette la psiche dell’animato, ossia, come sempre, quella del poeta, che è del suo mondo l’uno e il molteplice.

Contribuiamo al programma prospettato da Bachelard: “Ah, come sognare ancora, in questo declino degli aggettivi possessivi, di quelli aggettivi che esprimevano con tanta forza la familiarità che avevamo con i nostri oggetti. (…) Quale immenso lavoro saremmo lieti di fare se potessimo riunire un museo di “oggetti onirici”, di oggetti onirizzati da una rêverie familiare di oggetti a noi familiari. Ogni oggetto nella nostra casa avrebbe così il suo “doppio”, non un fantasma da incubo, ma una sorta di spettro che abita la memoria, che ridona vita al ricordo.” La fiamma di una candela.

Questo museo ci riporterebbe alla vita lenta e alla compagnia vissuta con gli oggetti famigliari. Davanti ad essi siamo presi di nuovo e ogni volta, come sognatori ad occhi aperti tra la magia del tempo presente e il ritorno di un passato familiare. Il museo degli oggetti onirici familiari immaginato da Bachelard è terapeutico, ci farebbe vivere le trasformazioni del sentimento della vita di cui ci parla Gadamer: ”Quando si è visitato un museo non si esce con lo stesso sentimento della vita che si avrebbe quando si è entrati, se veramente si è sperimentata l’arte, il mondo è più luminoso ed è diventato più leggero” L’attualità del bello. Se non possiamo sentirci a casa in un museo, facciamo entrare a casa la poesia degli oggetti, la bellezza e il suo mistero.

Col nomadismo moderno abbiamo perso l’attenzione per la bellezza delle cose e per il mistero di questa bellezza. Siamo circondati da oggetti muti, nel senso che non parlano tra loro e non si relazionano con noi, ci sono piuttosto estranei. Se hanno un’anima, è misteriosa, inquietante. Con questi oggetti moderni è difficile trovare rispondenze, incontri di affinità elettive. Ma c’è da dire che anche gli oggetti più famigliari sono presenti insieme a qualcosa di non famigliare, estraneo, misterioso. In ogni caso sono in gioco relazioni, il nostro relazionarci con il mondo.

Ci sono oggetti che attraggono, creano campi gravitazionali nei quali ci lasciamo catturare; sono lì, da sempre, autosufficienti, viventi.

Questi oggetti sono una trappola, non solo dello sguardo, piuttosto cercano un “contatto”: gli occhi desiderano accarezzare, le mani vogliono vedere, oltre la superficie: l’oggetto seduce, cattura, è accarezzato, sfiorato oppure è trappola e fuga delle sguardo. E stabilire un contatto con l’oggetto è tanto più possibile se lo animiamo col gioco e lo liberiamo dalla sua funzione.

Ci sono oggetti che possiamo far diventare misteriosi, enigmatici, liberandoli del contesto, ponendoli in uno spazio vuoto, in uno spazio qualsiasi, sospesi nell’aria come corpi celesti, meteoriti, UFO, strani geroglifici, sui quali fantasticare e scoprire altri mondi.

Ma quando siamo in solitudine, davanti agli oggetti famigliari, non possiamo guardarli, senza scoprire che gli oggetti, a loro volta, ci guardano. E non è detto che questi oggetti ci guardino tramite sguardi umani personali. C’è uno sguardo misterioso degli oggetti, delle cose, che ci fa sentire, anche se per un attimo, cosa, altro … Sono gli oggetti che ci guardano misteriosi nei film di Ozu.

Riscopriamo anche noi occidentali lo spirito delle cose, l’anima che diamo quotidianamente alle cose. Carichiamo i nostri oggetti di valore affettivo. Scegliamo un nostro oggetto famigliare e siamogli fedeli. Mettiamoci sullo stesso piano dell’oggetto, come oggetto davanti all’oggetto. Fissiamo la nostra esistenza in un particolare dell’oggetto sulla tavola, e sogniamo molto.

La minima fessura
Di un vetro o di una tazza
Può ricondurre la felicità di un grande ricordo
gli oggetti nudi
mostrano la loro struttura
sfavillano all’improvviso
al sole
ma perduti nella notte
Si riempiono altrettanto bene di ore
lunghe
o brevi.

Territori, Jean Follain

Leggendo lentamente questi versi, sognando ora, in una lettura lenta, quale tranquillità scende in noi! Sognare gli oggetti nudi, le minime fessure di un vetro o di una tazza, come ci aiuta a dimenticare il tempo che scorre, ad essere in pace con noi stessi! Nella solitudine, con un oggetto umanizzato e scelto come compagno di solitudine, che sicurezza di vivere una esistenza semplice!

Per il sognatore di oggetti non vi sono “nature morte”!

“Il gioco di luce proiettato sugli oggetti più insignificanti, una sedia, una brocca, un vaso di rame; ed ecco che tali oggetti che non meriterebbero di essere guardati, e ancor meno dipinti, diventano così interessanti, a loro modo, così belli, che non potete staccarne gli occhi: esistono e sono degni di esistere.” Consuelo, George Sand

Sì, l’immaginazione ha bisogno che l’oggetto acquisti profondità e interiorità, anche con l’aiuto della illuminazione. Pensiamo al cinema di Michelangelo Antonioni: sull’oggetto, immerso nella profondità della penombra, si posa una luce debole e indecisa, senza ritorni; le superfici opache, non lucide e riflettenti, assorbono la luce, i riflessi sono profondi ed invitano alla profondità della materia.

Basta un oggetto, basta dargli un nome, per animarlo ed occuparci interamente lo spirito. Siamo così nello stato più adatto per mettere in moto la fantasia: “Anche il più concreto ed utilitario degli oggetti, una caraffa ad esempio o un piatto di legno, si carica di quella sostanza imponderabile. Non che si svuoti della materia sua propria; ma ad essa si aggiunge un fluido sottile. E’ come se di colpo esso prendesse un’anima; e subito, per l’accresciuta pienezza, esso acquista il dono meraviglioso d’essere più che se stesso, reale al punto che si dubita della sua esistenza” Tonino, Henri Bosco.

Riscopriamo i nostri piccoli oggetti famigliari mentre si fondono in un mondo amorosamente fondato sulla meditazione e il fantasticare. Sono oggetti e un mondo da vivere più che da vedere.

Cosi, Giovanni Pascoli, anima la lampada ardente:

Io sono una lampada ch’arda
soave!
la lampada, forse, che guarda,
pendendo alla fumida trave,
la veglia che fila

Canti di Castelvecchio

Ci sono poi oggetti eletti dal fantasticare: un cristallo o una conchiglia ci prendono come oggetti privilegiati, perché nel loro apparire pensiamo alla costruzione di questi oggetti, vediamo in loro la parvenza di una intenzione, ci incuriosiamo della loro formazione.

Prendiamo in mano una conchiglia, teniamola e rigiriamola tra le dita: siamo stupiti e presi dal seguire le spirali e le ellissi. Pensiamo al processo che ha potuto dare luogo a quelle forme, come una possibile intelligenza ha potuto muovere verso la sua forma definitiva, in modo da renderla finita, non un giro di più. A questo punto chiediamoci: chi ha fatto questo? Chi dunque ha fatto questo? così sotto il nostro sguardo, questo piccolo corpo calcareo cavo e a spirale richiama intorno a sé numerosi pensieri, e nessuno si compie, senza che nessuno si esaurisca.

Così immaginiamo la conchiglia come un guscio che è stato abitato e che la conchiglia sia stata emanata dal mollusco, il quale appunto ha prodotto, nel suo vivere, delle geometrie perfette. Immaginiamo gli esseri stupefacenti che possono uscire dalla conchiglia.

Basta la parola conchiglia per avviare una favola!

Animiamo i nostri oggetti con la fantasia disneyana. In cucina, mandiamo la tazza a lavarsi da sola, la pentola a scolare la bieta. Il cibo implora di farsi mangiare, la focaccia ordini che la si mangi, il brodo faccia rotolare per le strade ritagli di carne.

Seguiamo la capacità di Disney di cogliere e trasmettere l’anima delle cose. Topolino, stanco di sistemare la grotta e assetato di conoscenza, approfitta dell’assenza dello stregone per usare il libro di incantesimi e ordinare alla scopa di continuare a faticare al posto suo, mentre lui si concede un sonno ristoratore. Al suo risveglio, la scopa si rifiuta di obbedirgli, e lui non riesce a fermarla, neanche distruggendola: da ogni scheggia ne nasce una nuova, e tutte insieme formano un esercito di scope stregate che solo l’intervento del mago riuscirà a domare. Sono in gioco le nostre paure: il fatto che gli oggetti, resi automatici, e quindi vivi, possano rivoltarsi contro l’uomo.

Diamo vita agli oggetti in modo che si mettano al nostro servizio, grazie ad incantesimi: la poltrona ci fa sedere, i piatti e i cucchiaini ballano sfrenati, le bottiglie di spumante si stappano da sole e i boccali traboccanti di bibite partecipano alle danze.

E ancora, immaginiamo gli oggetti che si animano quando noi non siamo presenti, senza esserci utili, assolutamente liberi e consapevoli padroni delle loro azioni.

Sono sequenze disneyane che continuano ad affascinarci, attraverso un immaginario ispirato dalle fiabe tramandateci dai Grimm e da Andersen, nonchè dall’immaginario dagli antichi greci. Ma ci chiediamo: come sogneremo meglio con Disney, se le animazioni e i fotogrammi fossero animati dalle immagini donate dai poeti! La lettura, questa lettura creativa che andiamo proponendo genererebbe una nuova economia dell’immaginario.

Sogniamo insieme al Pascoli di compenetrare l’inanimato con l’animato, dove è la poesia a vivificare l’inanimato. E allora scopriremo che dappertutto, nella parola dell’uomo come nel linguaggio dell’animale e della cosa, c’ è la voce profondamente affettiva della bontà.

Scopriamo la bellezza finalmente in accordo con il bene, attraverso i poeti, percepire il bello ci fa bene, e così entriamo in contatto con la nostra anima che un tempo ha contemplato il bello. I poeti riescono a vedere “il bello che salverà il mondo” (Dostoevskij), perché loro i poeti si meravigliano delle cose e si meravigliano del tempo che passa e trasforma, della morte che distrugge, e vorrebbero salvarle tutte le cose. Sì, salviamo le cose, le creature, in quanto i poeti ci fanno scoprire che gli oggetti e il creato non esistono fuori di noi, e che esiste soltanto il nostro rapporto con essi.

Di fronte alla desertificazione degli interni, sempre più vuoti e di passaggio, con la proliferazione di oggetti estranei e dalla vita effimera, salviamo gli oggetti dotati di una pazienza immobile, che ci aspettano a casa, attendono il nostro ritorno, testimoni silenti del trascorrere del tempo:

Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno più in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.

Le cose, Jorge Luise Borges

Liberiamo gli oggetti dalla pura ed eccessiva funzionalità, avvolgiamoli di mistero e di altre possibilità, con la nostra immaginazione:

Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!

Dora Markus, Eugenio Montale

La casa senza più padrona, con la donna sempre tesa all’esterno, non può darsi come casa dell’intimità protetta, così come la camera da letto non può darsi come grembo della casa o come rifugio dal nomadismo moderno. Non c’è più spazio per il vero riposo protetto, per il lavoro intimo della memoria e del fantasticare ad occhi aperti.

Non rimangono che gli oggetti come ultimi testimoni dell’assenza e della presenza:

La mia stanza ha il vuoto che le lasci:
non le manca la sedia, ma il tuo posto.
Non le manca il giradischi, ma la tua voce
manca e il silenzio d’averti intorno.
Mancano gli occhi tuoi più dello specchio.

La stanza, Alfonso Gatto

Rivediamo i film di Michelangelo Antonioni, grande poeta della desertificazione di interni, case, senza memoria né natalità, creando il vuoto del focolaio, spazi sempre di passaggio, d’incontro, di attesa, di osservazione. Antonioni riserva all’oggetto l’acquisizione di interiorità. L’oggetto, assorbendo la luce, ripropone il dispositivo del toko no ma: l’oggetto immerso nella profondità della penombra, insieme a grafie, pitture stampate, pareti ruvide, su cui si posa una luce debole ed indecisa – senza ritorni. L’oggetto non è portatore di significati, non è un segno, ma piuttosto il testimone che connota l’assenza di senso e di soggetto, e che rivela la mancanza. L’oggetto allora si carica di mistero, di una sostanza imponderabile, alla quale si aggiunge un fluido sottile. E’ come se prendesse un’anima e acquistasse il dono d’essere più che se stesso, un terzo (e vero) abitante della casa e del microcosmo dipinto nel film.